Premessa

 

 

   Nell’epoca della videoscrittura capita ancora di sfogliare un libro tanto per leggere qualcosa. Ma: chi lo prenderebbe in mano un volume dal titolo Pitino, non sapendo di Pitino nulla, nemmeno che fu un celebre castello, ora dismesso e diroccato? Nessuno, lo prenderebbe. E se, per di più, già col nome dell’autore facesse pensare che sia cosa poco seria, chi lo leggerebbe, oggi, stampato senza immagini? Nessuno! proprio nessuno. Bene! Ecco, allora, subito detto quello che si pensava di dover premettere.

   L’autore, oltre a giurare che si chiama davvero così, prosegue col dire: «Parlando di Pitino – che si dà come “soggetto” ancora abbastanza noto in tutta la Marca di Ancona, Camerino e Fermo – mi verrà da dire (lo sguardo dall’alto genera nuovo spazio nella mente) cose anche serie e perentorie insieme ad altre meno impegnative, scritte per isvagamento del lettore (così direbbe il Leopardi), cioè per non tediarlo soltanto con quelle. E questo mi accade perché si parla di Pitino da una situazione insolita: dalla vetta di quella sua torre così panoramica e antica.
   Ma, per le numerose immagini che lo fanno vedere e conoscere pure senza leggere il testo, Pitino è l’argomento principale. Tuttavia esso si presta anche ad essere visto come un “pretesto” per un discorso più ampio, quasi fuori tema, fatto in gran parte con frasi altrui; frasi che, messe, però, in corsivo, sono non un furto, ma un omaggio: chi copia e cita quando occorre, non ruba, ma ammira. E il corsivo è di Gervaso.

   «E a proposito di citazioni, si dirà che ce ne sono di esatte e di sbagliate. Quelle esatte, perché strappano l’assenso, sono come i briganti ai bordi della strada (e questa è una citazione esatta); quelle sbagliate dànno il profilo della persona colta, che non cita mai con precisione: ci mette sempre qualche cosa di suo. E per questo motivo, le frasi ad effetto citate male espongono al rischio di essere citati. Se questo capiterà a me, mi starà bene, per averne fatto un abuso tale che sento il dovere di chiederne benevola sopportazione a chi le leggerà forse tra sé pensando: citazioni citabili, ma citate da chi sfoggia disinvolto più cultura di quella che ha.
   «E questo è vero. Tuttavia, pur non essendo un Carducci, mi permetto ugualmente di fare e dire come lui: so legger di greco e di latino, / e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù. Dico così solo per informare e incoraggiare il lettore. Perché, non avendo io - persona da poco - mai avuto il benché minimo incarico, domanderebbe invano chi sono. Non è la carica a far conoscere l’uomo? E i nostri veri nomi, oggi come ieri, non sono i soprannomi? Due citazioni, queste, (una di Aristotele e l’altra di Thoreau) che mi permettono di aggiungere: benché sia soprannominato cònte, l’autore - badate - è di fatto “anonimo”. Perché gli capita di essere diverso da come si chiama: nome, cognome e soprannome gli vennero imposti alla nascita, non se li è dovuti guadagnare, non sempre gli aderiscono; e si dovrebbe togliere or l’uno or l’altro insieme alla giacca quando non dorme, quando è in collera e ad ogni prova attitudinale impegnativa, come ora che tenta di fare lo scrittore, sia pure per hobby e da pensionato. Si augura, comunque, che sia vera e condivisa da qualcuno questa dedica di Davide Rondoni: A Pacifico, di nome e per fortuna non di fatto.

   «Ciò detto al fine di avere per lettori amici e non giudici, mi resta solo da chiedere ad essi scusa prima di ciò che qui, tolte le citazioni, è soltanto mio: il banale, la retorica, la polvere e gli spruzzi; e poidell’involontario mancamento del risultato che mi ero prefisso di raggiungere con questo lavoro: contribuire a far sì che non si perda del tutto la memoria né cessi, per incuria o malvolere, la manutenzione e la custodia di quel poco ch’è rimasto di uno tra i più caratteristici luoghi del Maceratese e del Piceno».

   Ma il modo migliore per salvare davvero Pitino era non di scrivere un libriccino (così lo pensavo prima che, crescendo, questo diventasse un volume che si spera gradito com’è venuto, se non per altro,per la dimestichezza del dire) bensì quello, molto più arduo, di riportarvi la vita e ciò che gli è stato sottratto. Come?

   Innanzi tutto, e per quanto riguarda la vita, ripristinando le parti di costruzioni medioevali fatiscenti o crollate di recente. Poi facilitando la riedificazione dei fabbricati del borgo almeno in base alle particelle del vecchio catasto gregoriano. Infine riducendo o, comunque, modificando il ruolo pur necessario e innegabile della burocrazia per ridare spazio e facoltà all’iniziativa privata, liberandola da troppi lacci e pastoie che invischiano gli stessi burocrati. Questo si chiede e si tenta di fare, pur sapendo che contro di loro anche gli dèi combattono invano.

   E per quanto riguarda ciò che è stato “sottratto” a Pitino, la restituzione è assai più problematica ancora, per non dire impossibile: i musei sono, spesso, venerati (non venerabili) empori di refurtive, cioè un rimedio simile al male: con essi alcuni (e non basta dire solo francesi, pensando al Louvre, la più grande refurtiva al mondo, ma anche settempedani, camerti, anconetani,…) hanno portato e portano impunemente a casa loro la roba di altri; e tali i musei rimarranno fino a quando al mondo non ci saranno un politico, un legislatore e un giudice con tanto di attributi: forti e capaci d’imporre ovunque e a tutti la restituzione del maltolto.

   Perché non si pensi che tutto questo è detto da una persona da poco come chi scrive, a proposito dei musei attuali, riporto il pensiero del Leopardi, il più forte pensatore delle Marche: «Io penso che le opere ragguardevoli di pittura, scultura e architettura sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le provincie, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini in parte pieni d’infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll’animo connaturato, o costretto anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito. Oltre che la moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l’animo in guisa, che non attendendo a niuna di loro se non poco, non può riceverne un sentimento vivo; o genera tal sazietà, che elle si contemplano colla stessa freddezza interna, che si fa con qualunque oggetto volgare».
   Ma riportare vita e maltolto a Pitino, chi lo potrebbe fare, lo farà? Ai lettori, se ci saranno, l’ardua risposta.
   Si può e si deve dire, però, che, con una diversa sinergia tra la Sovrintendenza, l’Amministrazione comunale e l’iniziativa dei Fattobene, la musica potrebbe finalmente cambiare anche per Pitino. Speriamo che da male si vada in bene e da bene in meglio. Da parte sua chi scrive ha fatto e fa quel che può perché avvenga quel che si spera. Quelli che potevano farlo in passato non l’hanno fatto. Anzi, alcuni hanno fatto e fanno tuttora il contrario. Vorremmo non che scompaiano, ma che la smettano.
   Chiudo dicendo del sottotitolo: è pensiero di Leopardi (Zibaldone, 26/5/1823) che anche all’uomo qualunque capita di vedere le cose in modo diverso dal solito, se le guarda da un luogo più alto e superiore. Rileggendolo mentalmente, m’è venuto subito di scrutare, ancora una volta dal terrazzino di casa a Pitino, la «vetta della torre antica», quella laggiù de Il passero solitario, in cui il poeta adombrò se stesso. Sia perdonato quest’umile collegamento a Leopardi.

  

Un po’ di storia e di polemica

   Benché menzognera, la storia contiene sempre qualche verità. Per questo, parlando di Pitino, inizio anch’io col farne la storia. Ma sarà storia soltanto di una fase recente e d’un aspetto minimo di essa; solo da me, però, ben conosciuto. Lo scopo di questo preambolo è, quindi, di fornire, a chi voglia fare o rifare la storia di Pitino (cioè di una breve brevissima fase della sua infinita decadenza), qualche notizia d’un certo rilievo, che non potrebbe in altro modo avere; e che è data con la possibilità di essere controllata e smentita. In ciò che dico, mi riprometto d’esser breve nel riferire i dati essenziali, e stringato nel commento.
   La Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana dell’8 gennaio 1975 pubblicava un “decreto” emesso dal Ministero per la Pubblica Istruzione il 2 ottobre 1974. Con esso il Ministro dichiarava la località Pitino, situata nel territorio di Sanseverino Marche, zona di notevole interesse pubblico perché, situata nel cuore della Marca, “costituisce un determinante e caratteristico elemento del paesaggio maceratese”; e sottoponeva a tutela, in base alla legge del 29 giugno 1939 n. 1497, tutta la sommità della sua meravigliosa collina. Questa tutela si aggiungeva così alle altre, archeologica e monumentale, che, in base alla legge dell’1 giugno 1939 n.1089, già tutelavano la necropoli picena di Pitino e ciò che rimaneva del suo castello medievale, a 15 cominciare dalla torre,visibile da vasto raggio come nessun’altra nelle Marche.
   Tale decreto di tutela paesistica fu emanato non su richiesta del Comune di Sanseverino, ma per iniziativa di soggetti privati (nota 1). Questi, con un compromesso stipulato nel giugno del 1970 con la Curia della Diocesi camerte e sanseverinate, miravano ad acquistare il castello di Pitino perché era - tra l’altro e, forse, ragione non ultima - ancora libero da quest’ultimo vincolo. Venuto meno il compromesso (perché quei primi acquirenti volevano, per poterne disporre, anche la proprietà della torre, che ancora il notaio non sa - il catasto indica ma non prova - se sia della parrocchia o del Comune: entrambi la vogliono, ma non in custodia!), e subentrati, poco dopo, altri acquirenti, quei signori reagirono facendosi, di fatto, promotori di quel decreto ministeriale: l’11 gennaio 1972 si riunisce la Commissione provinciale di Macerata per la protezione delle bellezze naturali perché “da qualche tempo” - così si legge - “Pitino è oggetto di interesse da parte di alcuni che lo vorrebbero utilizzare per diversi scopi”. E a scrivere questo (e senza specificare il “diversi”) era un qualificato componente di quelle Commissioni che, con la loro funzione, sanno come provvedere al bene pubblico, e ad un tempo di volgerlo, come si volgono tutti i bisogni pubblici, ad utilità (o a danno) particolare, come direbbe il nostro Leopardi.
   Benché la Soprintendenza fosse già intervenuta (foto 12-14) a tutela dei fabbricati del castello con la richiesta di un dettagliato progetto di restauro e utilizzo (foto 19-21) , “in considerazione, però, che una qualsiasi utilizzazione avrebbe potuto avere riflessi anche nell’area circostante”, la Commissione inserì Pitino nell’elenco delle località da sottoporre a tutela paesistica perché il Ministro lo approvasse, come fece, con apposito decreto. Pitino veniva così, come per tardiva ritorsione più che preventiva protezione, sottoposto da due a tre vincoli: archeologico, monumentale e paesistico. Tutelarlo meglio di così, non si poteva. Però, che cosa è successo nonostante i vincoli o a causa di essi?
   All’umanissimo Sovrintendente, di cui non voglio ricordarmi il nome che suona cinese – un funzionario, costui, favorevole alla vendita di Pitino solo se l’acquisto era fatto da alcuni privati e non da altri (e per questo minacciava di citare un suo collega ché pensava facesse altrettanto: appena mi vide si fece subito l’idea che fossi un prestanome e, più che uno sprovveduto di idee, uno sprovvisto di “conquibus”, e il primo mio torto - come gli suggeriva Emilio De Marchi - era di non averli) - a quel sovrintendente, dunque, che in un sopralluogo lo esortava in mia presenza ad acquistare il castello messo in vendita dalla Curia, l’allora Sindaco di Sanseverino rispose che la sua Amministrazione non aveva alcun interesse ad impegnarsi per la conservazione di Pitino; e che la torre, facente parte del castello proprietà della Diocesi, era sì intestata al Comune, ma solo d’ufficio o per errore, e quindi sempre soggetta a possibile rivendicazione da parte della Curia diocesana.
   Con tale decisione e risposta, il Sindaco non faceva altro che attenersi alla politica da sempre seguita dal Municipio sanseverinate; che per secoli ha cercato di conquistare e possedere Pitino non per proteggerlo, ma solo allo scopo di sottrarlo ad altri e renderlo inservibile (abbattendone prima la possente struttura militare e riducendolo poi senz’acqua potabile, senza corrente elettrica e senza strada sempre praticabile: strada considerata “privata ad uso pubblico” per non doverne fare la manutenzione, perché - si sa - i turisti non vengono a protestare e votano altrove), pur facendo sembrare tutto il contrario con delibere mai attuate, con progetti mai fatti realizzare, con comunicati diretti a mezzo mondo e con articoli su giornali (foto 20-31) che, a rileggerli, ora si prestano ad essere materia buona per fare ironia.
   Una politica, questa, del tutto contraria a quella degli altri Comuni del Maceratese. Tra questi ce ne sono alcuni che sanno come salvaguardare i propri castelli, mentre altri sanno come fare il contrario: mettere o permettere vincoli per mandarli in rovina con l’aiuto invincibile della burocrazia. A Tolentino si è terminato il restauro e la parziale ricostruzione del castello della Rancia; a Serra San Quirico si porta avanti il recupero e il rifacimento del castello di Rotorscio (foto 32, 33) , che per un certo tempo fu tenuto dagli Smeducci di Sanseverino; a Camerino, non potendosi ancor più metter mano - pare - al castello dei Varano per l’intervento contrario di tecnici capaci solo d’impedire e non di fare, si sta facendo portare a termine non il ripristino, ma la ricostruzione del castello di Statte (foto 33, 34) ; e a Visso, con un lavoro straordinario ed una spesa immane, si rifà ex novo e con nulla di antico il fu castello di Mevale per intero, con il suo maniero e tutto il borgo già da gran tempo interamente scomparsi (foto 36-39) , senza la certezza, per altro, che, grande com’è ricostruito, sarà davvero di nuovo abitato e fruito, visto il completo spopolamento del vasto territorio circostante.
   Da noi, se si escludono cospicui lavori fatti in città (su tratti di mura sette/otto volte oggetto di interventi dei quali non ci si può vantare ad ogni tratto) e sull’acropoli, dei suoi castelli e fortificazioni nei borghi, il Municipio di Sanseverino, dopo averli distrutti o fatti distruggere, non ha mai speso di suo né fatto spendere più di qualche soldo per conservarne e tanto meno per restaurarne uno. Se lo avesse fatto (almeno quando poteva e per alcuni) non si sa quale ricchezza essi potrebbero rappresentare oggi anche e soprattutto per la stessa città.
   Chi l’amministra, invece, vede di malocchio Pitino e la sua torre, perché più visibile di quella comunale sull’ acropoli. Ha illuminato questa e quelle di Aliforni e Isola: torri che per essere ammirate tutte e tre contemporaneamente e da lontano, bisogna andare a guardarle da Pitino; la cui torre, però, non va illuminata perché cessi almeno la notte d’essere ammirata più di quelle.
   Secondo una ben nota, ma non sempre razionale e condivisibile direttiva delle Belle Arti, di ogni cosa meritevole di tutela (ma a giudizio di chi?) si deve prevenire sempre il disfacimento, restaurare solo l’esistente e mai ricostruire l’interamente scomparso. Le direttive, però, trovano sempre sulla strada le loro deviazioni (per altro non sempre deprecabili: le buone intelligenze si trovano anche al di fuori della nomenclatura burocratica) ad opera di gente capace anche di operare irregolarità e poi di trovare il modo di sanarle per soddisfare interessi legittimi professionali o privati alla stregua di diritti soggettivi, non cozzare con quelli pubblici. Per Pitino sono state e sono tuttora disattese direttive e deviazioni. Benché di molto assai più conosciuto - il suo nome figura in tutte le più note carte topografiche antiche (foto 3-9) - e più importante dei castelli sopra citati e dei quali ben pochi conoscono l’esistenza e la storia, per Pitino non va fatta né prevenzione a tutela (foto 57-59, 63, 81, 82)ripristino (foto 45, 52, 53, 63) , né restauro (foto 66, 67-69, 78) , e tanto meno sarà fatta, di ciò ch’è scomparso, la ricostruzione sulla base della documentazione esistente (foto 62, 65, 158, 159, 160-167, 183, 186, 189) o con una “riparticellizzazione” (ci siano perdonati il conio e l’uso di questo bestialissimo vocabolo!) della superficie interna a scopo di nuovo abitativo, come si usa altrove (ricordiamo Mevale) e come un tempo s’usava fare anche dal Municipio sanseverinate (nota 2). Suggerimento, questo, del tutto inutile, benché demolire e ricostruire, prima o poi, sarà una convenienza o necessità; inutile perché, per il sopravvivere nelle generazioni di una tanto secolare quanto ostinata e, forse, inconsapevole avversione, Pitino va fatto solo sparire, badando a non rifare di esso niente di quello che fu. Anche i castelli hanno le loro sventure; ed alcuni hanno avuto ed hanno ancora “guai” per la loro vicinanza a qualcuno, come purtroppo successe - secondo Virgilio - a “Mantova troppo vicina a Verona”. Una vicinanza, però, non così grave per Mantova come - e passi il paragone - quella patita da Pitino col Comune di Sanseverino.
   Prima di quei vincoli ricordati all’inizio, nessuno aveva ritenuto che Pitino avesse bisogno di venir sottoposto ad ulteriore tutela, perché, proprietà della Diocesi, era abitato e custodito. Non risiedendovi più il parroco, dopo la costruzione in basso della nuova chiesa (un nonsisaché inaugurato l’1/2/1969) (nota 3) e non potendolo più custodire, l’ autorità diocesana decise di vendere (nota 4) ciò che era di sua proprietà perché Pitino non cadesse del tutto in rovina. Ma l’ultimo dei vincoli fu messo non per tutelare il colle e il castello da pregiudizievoli interventi dei nuovi acquirenti, ma per impedire presunti illeciti arricchimenti. Gli interventi, infatti, furono fatti credere, senza alcuna prova, soltanto “speculativi”, benché già i primi lavori di restauro – si badi: tutto l’esterno della chiesa di Sant’Antonio (foto 51) e parte delle mura orientali (foto 55, 56) – venissero eseguiti secondo un progetto richiesto e già approvato dalla Sovrintendenza, e mai sottoposti a collaudo e a finanziamento per l’avversione di ogni Autorità, tutte contrarie, nonostante le dichiarazioni favorevoli, a che il castello di Pitino sopravviva. Questo è tuttora dimostrato dalla mancanza di ogni manutenzione e custodia da parte del Comune anche dopo averne ottenuta la proprietà dal 7 gennaio 1988, e nonostante - come si è detto - promesse elettorali (regolarmente dimenticate appena finite le elezioni) e stanziamenti, come quello, ben cospicuo (cinque miliardi e cinquecento mila lire, che sarebbero potuti essere stati risolutivi), del post-terremoto del 1997 (foto 28, 31) previsto per Pitino e poi, per puerili, non voluti (sic!) ritardi burocratici del Municipio, destinato ad altri immobili, per di più al di fuori del territorio sanseverinate. Almeno così si dice, ma non si è mai da nessuno (né di maggioranza né di opposizione) ufficialmente appurato e riferito se sia vero, nonostante che siano ancora viventi soggetti in grado di dircelo con sicurezza non perché da noi ritenuti responsabili, ma solo perché ben informati dei fatti ed esperti di tutte le birberie che si possono fare con le procedure burocratiche. E una di queste birberie è, forse, anche il recente stanziamento di 500 mila euro (solo 300 per le opere murarie): con esso si dirà che uno dei più bei monumenti della nostra provincia è stato finanziato. E così Pitino potrà essere tolto di mezzo forse per sempre: depennato dall’elenco delle opere che devono, che meritano e che ancora restano da restaurare.
   Il risultato è che come castello, benché non meno vincolato di Pompei, Pitino oramai è perso; e fra decennio si potrà vedere, forse, solo sulle fotografie (ed è pure per questo che si scrive e si pubblica questo libro). Se anche in futuro (grazie a ciò che rimane della sua torre) si potrà ripetere (considerando, però, che i detti devono non dire la verità, ma solo far rima) che“Pitì bruttu se vede da per tuttu e Pitì béllo se vede da castéllo” (ma Pitì è bruttu per com’è riduttu!), lo si deve a Vittorio Sgarbi: soltanto lui ha impedito che la torre (dico torre e non il resto – nota 5) di Pitino, già dal Municipio cittadino mozzata di tutta la sua parte terminale (più non si scorge dalla sua vetta Ca- merino) andasse, crollando, del tutto in rovina.
   L’interesse pubblico ha continuato ad essere mal tutelato anche dopo quei decreti (tutti emanati a tutela, ma con effetto contrario a quello previsto: lo dimostra il confronto fotografico) e proprio per l’ostinazione di coloro che avevano prima dimostrato di avere solo un interesse privato e speculativo su Pitino, e poi, non avendo potuto speculare, gridavano, pure in TV, lassù si specula!Si appioppava tale intenzione a chi scrive, cioè ai nuovi acquirenti in base alla massima, che quasi mai fallisce e che dice:chi mal fa, mal pensa. Che sia successo quello che dico è credibilissimo, se si pensa che anche il migliore degli uomini fu annoverato tra i malfattori. Se il castello di Pitino, un primario bene culturale del nostro territorio (G. Piangatelli), oramai è perso (L. Cristini: uno che ne sa bene tutto il perché e il come), è colpa non di quel presunto speculatore, ma di quanti gridavano, lassù si specula, suscitando la reazione di molti e spingendo anche tutta l’Amministrazione comunale (tranne il sindaco Rossi) a credere che solo la proprietà pubblica potesse indurre lo Stato ad intervenire per salvare uno dei castelli più importanti delle Marche (C. Striglio su “La Gazzetta”).
   Tutti possono costatare che è successo e sta succedendo proprio il contrario: di Pitino si è parlato e gridato a non finire soltanto quand’era in mano a privati; gli stanziamenti per il castello sono andati altrove; e ora di esso non parla più nessuno, nemmeno il comitato “Amici di Pitino”. E tutto questo a causa anche di personaggi non di bassa levatura, ma che hanno perso il senso delle proporzioni: progettano di salvaguardare, col pubblico denaro, piccionaie abbandonate, cessi maleolenti e fontane fatiscenti e dismesse, e lasciano, però, che vada in disfacimento totale un complesso storico-ambientale eccezionale (F. Berni) come Pitino (foto 15) . A loro l’evangelista Matteo, uno dei quattro scrittori ancora più letti al mondo, direbbe: «Voi filtrate il moscerino e inghiottite il cammello!».
   Ma pensare questo di loro è, forse, poco corretto. Non è da escludere, infatti, che abbiano questa buona intenzione: volere che Pitino torni alla sua forma più antica, a quella primordiale; che sia, cioè, interamente inumano: luogo - direbbe il D’Annunzio - di sepolcri e di forteti soltanto; e che completi, prima possibile, il suo già avanzato ritorno allo stato d’inciviltà (del tutto contrario alla propria delle Belle Arti): a quello stato di sterpaglie soltanto e di ginestre (foto 47, 48, 64, 80, 83, 116, 131, 132) .
  

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   Avrei potuto fare a meno di scriverlo, questo preambolo, ma non ho resistito; e forse ho commesso un’imprudenza nel voler ricordare che, a ridurre Pitino alle deplorevoli condizioni attuali, iniziarono proprio quelli che frapposero ostacoli ai miei primi passi nell’arena della vita. Ostacoli che – e questo è stato il male che m’hanno fatto – mi resero poi incerto e insicuro in ogni successiva iniziativa: rinunciatario, con la tendenza a buttar via tutto, a mettermi in ombra e a sedere per sorseggiare, come faceva il Belli, gazzose e sorbetti e mangiucchiare leccornie varie al bar Menefrego, anche quando gli altri lavorano sodo.
   Benché scrivere sia anche un modo di menar le mani e pur non mancandomene, quindi, i motivi per farlo, credo comunque di non essere stato cattivo, scrivendo quanto ho detto; e di questo, nel rileggerlo, sento di dover precisare l’inizio così: per dire che la storia è “menzognera”, occorre che contenga almeno questa verità: uno scritto è, come questo, menzognero per quello che chi scrive non dice; se parla (bene o male) solo di alcuni soggetti e non di altri; e se, tra quelli, tace di chi non fece, per prendersela solo con chi impedì di fare. Confesso, insomma, che si può essere menzogneri anche tacendo. Ma un tal comportamento, che è senz’altro partigiano e può essere detto codardo, ha pure la sua buona ragione: così non si potrà dire che sono stato cattivo con tutti; e che non ho perdonato ad avversari. Con i pochi superstiti di loro cerco di seguire il consiglio di Virgilio, non però come fu dato a Dante, ma così: non ti curar di lor, ma guarda e passa. Perché qualche volta io di loro ragiono e penso: hanno contrariato una mia impresa - dico col Boccaccio e il re Filippo macedone - per un motivo falso, figuratevi che farebbero, se ne parlassi male, dicendo la verità. Dire la verità, chiamare, cioè, le cose coi loro nomi, è (“pensiero” n.1. di Leopardi) colpa non perdonata dal genere umano; il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.
   Ciò detto e pensando che la storia è, per lo più, il romanzo delle cose peggiori dei dì che furono, come il Pellico fece con la politica, io lascio di Pitino la storia ov’ella sta, e parlo d’altro. E, pur ben sapendo di non essere un Pellico neanche come scrittore, ne parlerò senza fare tanto il modesto: senza lasciare quel vizio elogiato da Italo Svevo; il vizio, cioè, di credersi grande di una grandezza latente!Grande o piccolo - posso dirlo, dato che non ho la superbietta di essere umile - con questo lavoro sarò annoverato anch’io tra gli scrittori. Perché ci sono due specie di scrittori, secondo Kraus: quelli che lo sono e quelli che non lo sono e scrivono. Io sono della seconda specie: uno che scrive alla meglio; un mediocre tale che non cesserebbe di essere mediocre pur se scrivesse come Voltaire. Ed è per questo che spero sia vera questa sentenza dei de Goncourt: «un libro non è mai un capolavoro: lo diventa». Ed io aggiungo: ce lo fanno diventare i lettori.
   Termino, comunque, dando la seguente giustificazione di questo mio “capolavoro”: poiché soffro di reumatismo articolare acuto nella pianta del piede sinistro, qualsiasi sassolino mi rende oltremodo doloroso il camminare. Soprattutto con questa “premessa”, me ne sono tolto uno abbastanza fastidioso. L’ho fatto in ritardo perché io sono propenso, per naturale benevolenza, a stimare gli altri più di quello che sono. Passare, però, sempre per grullo - lo ammetto - non è proprio il mio forte. Perché, quando mi capita, prima o poi mi stufo.