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Era certamente ed è tuttora, benché mozzata, quella di
Pitino la torre medioevale più panoramica della Marca
d’Ancona, del Piceno e, forse, dell’Italia centrale. Un
primato, questo, che Pitino da sempre corre il rischio di
perdere o di vedere ancor più sminuito per l’avversione,
l’ignoranza o l’incuria di chi dovrebbe difendere e far
conoscere la rarità non solo di una torre, che si può dire ancora
(con una frase di Virgilio tradotta da Annibal Caro) grande
antica possente bellicosa quant’altra mai, ma anche di una
meravigliosa collina, che sempre ricorre nella preistoria e
nella storia del Maceratese (parole di Dante Cecchi), e che
David, il salmista, direbbe stupenda come quella del
“monte” Tabor
(foto 41)
per ciò che esse hanno di uguale e
che di simile si può da loro ammirare.
Per lo stato di abbandono e il pericolo che corrono di
sparire del tutto, le ultime rovine del castello e la sua torre hanno
alla fine mossa tanto la bile di un (…) galantuomo, che si è
pur risolto di fare nella sua ormai troppo avanzata età quello
che non ebbe mai voglia di fare negli anni suoi giovaneschi e
virili. (Da vecchi - non è vero? - bisogna essere più attivi che
da giovani; e fare come la nottola: l’uccello sacro a Minerva,
che - secondo Hegel - inizia il suo perlustrare sul far del
crepuscolo).Così ora di me (che, audace e per il detto motivo,
mi provo a fare pure da scrittore) direbbero alcuni, se mi
leggessero insieme al Baretti. Per salvarmi dalla frusta letteraria
che questo “scannabue” usava controil flagello di cattivi libri
e il mal gusto, ripeto - prima di affrontare l’argomento - che
sono solo un “collezionista”: uno che pensa di non essere
troppo redarguito, anzi di farla franca, nel dire con “citazioni”
e, come suggeriva Orazio, in modo nuovo solo cose già dette
da altri. Ma, leggendomi, uno come il Guicciardini direbbe,
forse, con burbanza: questa è una fatica più di facchino che
dottore. E il “facchino”, se non altro per sembrare un po’
dottore, dice: capisco la sua boria.
L’approccio
Data questa cautelosa spiegazione, continuo con
l’affermare che, per avere l’dea di quanto sia, oltre che
spettacolare, vario e vasto il panorama dal castello di Pitino, occorre
riuscire a guardarlo dalla vetta della sua torre. E il tempo
migliore per farlo è quando, dopo una giornata di pioggia e di
vento, l’azzurro del mare Adriatico rispecchia lontano al sole
di mezzogiorno; e le cime più alte di tutta la mole,
frastagliata e lontana, dello scabro e ovattato Appennino risplendono
bianche di neve. Per questo io vi sono volentieri salito in tali
condizioni di tempo più d’una volta; e l’ultima vi sono
rimasto, come riferirò, da poco prima di mezzodì fino all’iniziar
della sera, allo scopo di poter raccontare quello che si vede,
si pensa e si prova dall’alto di quella vetta a chi non è mai
salito o non potrà mai salire fin lassù.
La salita
Giunti a Pitino, la torre, già avvistata e ammirata più volte
da lontano
(foto 1, 2, 43, 83, 110-114, 116, 131, 132),
si presenta in tutta la sua imponenza (un che, nonostante le rovine, subito
di maestoso e di antico) già nell’attraversare
(foto 76, 48)
i ruderi dell’arco d’ingresso al castello. E se vi affrettate, senza
sostare sul lastricato per badare ad altro; se, arrivati alla sua
base, troverete paletti e reticolati messi lì invano (perché
sempre divelti) per ostacolarne l’accesso; se, insomma, farlo
è vietato, allora significa che si può ancora salire sulla cima.
Perché nessuno ostacola o proibisce ciò che non è possibile
fare. Non scrivono i nostri carabinieri (forse per paura di
essere aggrediti?) limite invalicabile appunto dove pure lì è
valicabile?! E poi non tutti i divieti vanno osservati, perché
alcuni vanno vietati: non si dovrebbe, anziché proibire, fare in
modo che si possa, con agevolezza, ammirare ciò che è
degno di grande ammirazione- E non è proprio questo lo scopo
finale di quelli delle Sovrintendenze-
Ma per arrivare al primo pertugio, che solo può fare ora
dapostierla d’ingresso (dopo che la folle colata di cemento
autorizzata da un sovrintendente ha occluso quello dal
cunicolo sotterraneo, che prima immetteva dall’interno del
castello alla torre), occorre portare con sé una scala. Non
c’è più (se mai c’è stato) il sorvegliante che slega e
devolve, a chi chiede in modo amichevole di salire dall’esterno,
la biscaglina d’un tempo: quella scaletta volante fatta con
staggi da corde intrecciati come gradini di legno.
Portandone in spalla una moderna (cioè leggera, di alluminio e
plastica) e appoggiandola al muro, vi salgo tenendo a
tracolla (io ora, oltre che duro d’orecchi, sono diventato
anche miope un bel po’!) binocolo e macchina fotografica, e
in una mano una “pila” elettrica; e poi, strisciando e
penando non poco per la strettoia e l’età, riesco a penetrare,
impolverato e riverso, dentro la torre. Questo, appunto
perché proibito, posso solo dirlo come se fosse realmente
accaduto. Ma basta provare per credere vero quello che
racconto. E se, increduli, farete la prova, vedrete ch’è vero
anche il senso di claustrofobia e angoscia che mi ha preso
appena entrato lì dentro. E di sicuro prenderà a chiunque vi
vorrà salire come me: da solo e con lo stesso mio animo.
Dato però che, per vedere dove si è giunti, subito si
accende una qualche luce, immediatamente non si è più soli,
ma in compagnia della propria ombra. E questa, quando il
lume è dietro di voi, inizia a prendere l’aspetto della
sentinella, che s’immagina scesa, ora come un tempo, per farvi
salire per la scalinata di legno fin sui parapetti della sua
guardiola. Essa pare che vi accenni a fare i primi scalini; e
che vi accompagni, addossata alle ruvide pareti e mossa
dalla luce ondulante della lampada, che la fa tremare. Vi
sta per lo più di lato e sempre eloquente col suo silenzio,
quell’ombra. Osservandola, fa venire in mente cose
spiacevoli, alcune tremende, accadute un tempo in pareti simili
a quelle che ora fanno come da prigione; e questo spinge
chi sale a guardare non più verso l’alto, ma in basso; e a
voler tornare indietro, e a uscire subito di lì. Suscita questo
impulso il ricordare Pia de’ Tolomei, che vi morì, lì
rinchiusa da chi, sposandola, ’nnanellata l’avea con la sua
gemma; e il conte Ugolino della Gherardesca quando,
insieme ai figli e ai nipoti, sentì l’arcivescovo Ruggieri
chiavar l’uscio di sotto per farveli brancolare al buio e morire
tutti di fame.
Il panorama
Perché passi questa spiacevole sensazione, non resta che
cercare di raggiungere quanto prima la botola: un buco
rettangolare
(foto 140)
in cima ai molti scalini di legno. Allora,
già nel fare gli ultimi gradini, i polmoni si rigonfiano, tanto
poca sembrava ed era l’aria che prima giungeva dai due
pertugi delle pareti; e gli occhi, nell’emergere dall’oscurità
spingendo la ribalta dell’uscita, si sentono come accecare
dalla luce meridiana, che proviene e l’inonda dall’azzurro
del cielo. Poi, appena si esce e mentre in piedi si
appoggiano le mani come a riposare sopra il parapetto di fronte,
le pupille sono subito catturate da ciò che immediatamente
si vede
(foto 84 - 87, 89):
dalle creste innevate dell’Appennino
centrale, che taglia a tratti con quelle, sbiancandolo, il blu
più profondo dell’ultimo orizzonte: quello della catena non
interrotta di monti che vanno dalla ruga a destra del
Sanvicino alla giogaia dei Sibillini fino all’ossatura del Gran
Sasso giù nell’Abruzzo. Così che, stando nel mezzo e
come a pari distanza tra mare e monti, in pochi istanti, gli
occhi si riempiono prima di bianco e turchino, come dinnanzi
ad un’opera di ceramica artistica uscita da mani ancor più
abili di quelle dei Della Robbia; e poi, affacciati, da uno
spontaneo e immediato giro del capo, al parapetto opposto,
cioè verso l’Adriatico, sono presi e trattenuti a lungo da un
ampio spettacolo
(foto 90-92)
di realtà espresse da un
gradevole miscuglio di colori: dal grigio biancheggiar
d’azzurro che fa lontano la marina a mezzogiorno, quella da
prima del Conero giù giù fino agli ultimi rilievi oltre il
territorio fermano: una conca grande, piena di luce che si
colora e scolora in case sparse e paesi sui rialzi dei colli, tra
spiagge e clivi, su poggi e radure, tra mare e monti.
Con questo rapido e duplice giro spontaneo su sé stessi,
ci si accorge, guardando, che lì, sul colle di Pitino si è nel
cuore delle Marche, come nel mezzo della scena di un
teatro grandioso, e di fronte non solo ad uno dei paesaggi più
suggestivi e meno reclamizzati e fruiti di tutta la regione,
ma anche di fronte all’aprirsi di un sipario su di una delle
più splendide scene locali della natura e dell’arte. Per
l’altitudine, la somiglianza e il panorama che offre, in
estate è Pitino il monte Tabor delle Marche!
(foto 41, 132, 183).
Basta un altro semplice rigirar di spalle, e si torna a
guardare più a lungo e in dettaglio il panorama visto al
primo sguardo. Si è, come s’è detto, nel mezzodì di uno di
quei rari giorni in cui, finita l’estate e in autunno già
inoltrato, l’erte cime dell’Appennino più scabro a volte
rifulgono spolverate di neve; e il cielo, lavato da pioggia
recente, è reso terso da un vento incerto mutevole bizzarro, da
maestrale a borea-aquilone, ma per lo più di tramontana,
quando a Pitino la brezza del grecale che vi giunge dal
mare non si trasforma in vento travolgente e selvaggio.
Osservato a occhio nudo, il panorama, partendo dal
piano color di mattone o bigiognolo dei fondivalle limitati
dall’orlo glauco o cinereo delle colline; andando poi su su
per i pendii e le gole, tra boscaglie e forre dove scorrono
dai monti verso l’Adriatico i fiumi Chienti, Potenza, Esino
e Musone; e arrivando con lo sguardo fino all’inizio dell’
azzurro del cielo sopra le vette innevate e oltre, – il panorama,
che si ha d’innanzi, è anche per me, come sarebbe
per molti, una novità: grazie all’altezza della torre da dove
lo guardo, mai l’ho veduto così prima di ora: ampio aereo
frastagliato, un’ondulata tavolozza di colori. Avendo
dinanzi un simile spettacolo, dove pare che a gara intorno
ogni cosa sorrida, a me viene spontaneo gridare: Bello è il
tuo manto, o divo cielo, e bella / sei tu, terra natia! ... Te
beata… per le felici / aure pregne di vita e pe’ lavacri /
che da’ suoi gioghi a te versa Appennino!
E mentre guardo e mentalmente esclamo così, mi
accorgo che tutto il paesaggio montano e campestre (soprattutto
nelle sue piante: querce, acacie, carpini, cipressi, oleandri,
più rari gli aceri, olmi, faggi immaginati più che intravisti
spuntare sull’altipiano del Canfaito) a differenza degli
uomini e degli animali, già si prepara, spogliandosi, a vivere
l’inverno in arrivo.
Osservando col binocolo anche quelli più prossimi, i
mandorli, i ciliegi hanno, infatti, già iniziato a far cadere le
foglie; e queste sui meli hanno preso ad ingiallire prima che
sui fichi; gli olivi sono già carchi di drupe più o meno
rossicce, ma non ancora pronte ad essere colte. Solo i gelsi, da
molto senza i loro frutti (simili a bruchi candidi e pelosi, che
si direbbero fatti di cotone), sono già brulli; mentre i boschi
che ricoprono tutto il versante montano, lasciando, dove più
dove meno, l’aspetto estivo, vanno assumendo quello
invernale: verde imbrunito o scuro, a tratti; marrone incenerito e
giallo allungato nel chiaro, diffuso; rosso sangue, a cespugli.
Nel puntare poi un buon binocolo sulle radure di montagna
più vicine, si vedono, in quelle rimaste incolte e senza
pascolo, chiazze che hanno perso già tutte il verde, e vanno dal
cromo al ruggine e all’arancio; e dove, però, invano e qua e
là, si va in cerca di quel brulicar di colori (bianchi scuri
ossi rosa gialli violetti), che è dato ammirare, (guardandoli da
vicino al soffio di primavera dopo sparita la neve), prima
sbocciare e poi esplodere al sole in mille colori negli
altopiani di Canfaito, Montelago, Colfiorito, Collattoni,
Selvapiana e Castelluccio di Norcia.
Si è detto, il panorama, una tavolozza ondulata e
variopinta. Gli appezzamenti di terreno coltivato sono, infatti,
intervallati da greppi e fossi di corsi d’acqua, accentuati
nella loro gibbosità dai solchi delle arature stagionali e dai
filari delle culture viticole, e ovunque screziati da chiome
per lo più di ulivi e querce secolari. Sono queste che si
vedono fiancheggiare numerose la strada che porta sulla
sommità del colle di Pitino: questa enorme groppa di
arenaria che, a guardarla da lontano, da sud o da nord, prende
sempre la forma di una enorme semisfera
(foto 183, 184)
simile, in eleganza, ad un bel turgido seno a pera
(foto 1, 2, 112, 119, 132, 252)
o, vista nella stagione autunnale, ad un
ben maturo pomo di melograno
(foto 110, 113, 116, 237).
Con il loro antico e intricato arabesco del tronco e dei rami, a
volte ingrossati da nere edere, le querce, anche a guardarle
da quassù, sono l’aspetto di prima sorpresa che offrono le
coste del paesaggio sottostante e più vicino alla torre.
Tra i colori, insomma, di questa tavolozza (che,
guardandola dal colle di Pitino, par che trascolori secondo le
ore o le nubi del giorno o secondo il vento e la stagione)
spiccano e sono dominanti prima l’azzurro cupo del cielo
montano e quello, molto più tenue, della marina; poi il
marrone grigio scuro, che in quella sua gradazione al
“biscotto” è in campagna più diffuso e di più lunga durata del
verde, e che, frammisto al bianco, è costante nelle
costruzioni di paesi e di città non rivierasche o comunque meno
recenti; e infine il verde della primavera, nei pochi tratti in
cui è riuscito a scampare o a sopravvivere alle fienagioni
di fine maggio, divenute tutte meccaniche e sempre più rapide al pari delle mietiture.
***
La montagna
Guardare da quell’altezza con un binocolo non è un
vantaggio da poco per chi ha la vista indebolita dall’età. Ad
occhio nudo, nel vedere spuntare, tra i monti del nord, la
cima di monte Acuto, non si andrebbe, sulle orme di
Dante, in cerca de il gibbo che si chiama Catria; né si
vedrebbero in tutta la loro maestosità la mole del Sanvicino
(foto 84)
(non umile monte appare da qui, con il suo pianoro in
alto a tratti semilunare, i dossi precipitosi, il forteto
primordiale, e solo per questo non meno bello e imponente
del Sanvicino visto dalla rocca di Camerino) e poi il tozzo
culmine del monte Gemmo, la cima del monte Pennino che
scruta il Subasio e il Vettore, il massiccio del monte Igno,
il muso tórvo del monte Bove e, dietro, la parte superiore
del monte Rotondo. Neppure si vedrebbe bene, senza
binocolo, il cono elegante e leggero del Pizzo di Meta che
guarda la schiena povera e nuda del Sassotetto; e dopo di
questa la punta triangolare del Pizzo Tre Vescovi, che a sua
volta affronta la testa, coronata e gelida, della Sibilla come
spunta da dietro la ripida cresta allungata ad arco del Pizzo
sereno della Regina
(foto 86);
cui segue e culmina in una
grandiosità alpestre la parte nord del dorso ciclopico del
Vettore
(foto 88)
prima che questo sgroppi, come si sa, giù
per le coste pietrose e boschive del crinale verso la Laga e
il Terminillo. E, infine, senza binocolo, nemmeno i due
corni del Gran Sasso, che, per la lontananza, emergono
uniti come dall’acqua, sembrerebbero simili alla pinna
caudale
(foto 85)
di uno squalo gigante che, in una
insenatura dell’Adriatico, sommuova d’intorno i monti della
Laga e i Sibillini, facendo così di quella parte di Appennino
centrale un mare in tempesta.
Il binocolo, però, non fa lavorare solamente la vista, ma
anche la fantasia e la memoria: non fa solo vedere, ma pure
ricordare. E facendolo scorrere si va in cerca della Sibilla, la
vetta della maga che vi giunse da Cuma, dando così il nome a
tutto l’Appennino umbro-marchigiano. E come se si lasciasse
Pitino, chiusi gli occhi, con la memoria si fa la strada
impervia, stretta, rischiosa, che ha ferito il mitico monte fino quasi
sulla cima. Si rivede così l’antro di Alcina, lo speco della
bellezza e del peccato che sprofonda -come si dice fin
dall’origine dei tempi - nelle viscere del monte e si apre, alle
spalle, proprio a picco e, secondo la leggenda non a caso,
sulla bocca e la gola dell’Infernaccio. Il ricordo del fragore
del fiume Tenna, che precipita nell’ orrido cavo del precipizio
e serpeggia tra le pareti di quella spaccatura verticale della
roccia, pare che rompa il silenzio di una solitudine tanto
immensa che sembra arrivare fin su questa torre, e spaventa
solo a ripensarla, quella strettoia detta col termine
azzeccatissimo dell’Infernaccio tanto che, se Dante l’avesse vista, ne
avrebbe senz’altro tratto - io penso - l’idea di un cunicolo da
una delle sue bolge infernali ad un’altra.
***
La riviera
Forse per questo mi ritrovo a puntare di nuovo il
binocolo sulla riviera e di lato al colle di Recanati
(foto 90).
Dove poco discoste dalla riva si vedono, cosa ormai rarissima,
piccole e occasionali vele di barche simili, per la distanza,
ad ali d’uccelli marini, che paiono incerti se volteggiare o
se cadere sull’acqua. È, questo, rispetto a quello di poco fa,
un tutt’altro vedere e ricordare. Il panorama, da questa
parte, se da un verso diventa più “paesaggio”, perché - direbbe
Leopardi - veduta ditanto paese, dall’altro, però,
sminuendo i confini tra città e campagna, si fa via via più
indistinto e anonimo per il processo inarrestabile di
urbanizzazione senz’ordine e grado e, quindi, di degrado ambientale,
che ormai investe anche la nostra regione, prima e fino a
non molto fa ovunque coltivata, da mani operose ed attente,
come un giardino.
Indugiando a guardare da lassù quelle vele simili a voli di
grossi gabbiani sul mare, mi ritorna alla memoria quando su
quel litorale, sentendo venire un che di brezza con una forza
maggiore di quella che ora sento arrivare fin qui, guardavo
il nascere continuo delle piccole onde, il loro rifrangersi
giocoso, lo sciogliere senza fine la propria esistenza tra il
venire e l’andare dell’onde sulla riva. Chiuso, poi, in
macchina (aspettando di vedere con gli occhi di Luisa Giaconi
lo scintillar della luna falcata sul tremulo mare), vi
rimanevo a sonnecchiare a lungo, con le palpebre giù già prima che
la testa ciondolasse sul petto: producevano questo
soporifero effetto prima quella meditazione e l’ascolto della voce
profonda ed oscura del mare, e poi quella del gorgogliare
assonnante dell’onda che s’allunga, sbavando, sulla battigia.
Ricordo, però, ancor meglio le cose guardate da sveglio.
Mi riviene in mente le prime volte che, da contadinello
ancora e boscaiolo, vi ritornavo con la speranza di
riassaporare la meraviglia mozzafiato, che lì provai nel vedere,
steso su quella sabbia e poi tra l’onde, il mio primo nudo
femminile. La rivedo com’era: un corpo ampio e generoso,
opulento, era, infinito e stupendo.
Ricordo che gli occhi miei, aperti e fermi, non
smettevano di esplorare l’armonia di quelle membra sode e, tra
schiume di onde corrive, al massimo vigore. Non seppi
mai chi fosse … coperto in parte il viso aveva per lo più da
un dispettoso cappello di paglia: ho sempre cercato,
invano, di riprodurla
(foto 251).
Benché un cenno qualsiasi di lei
mi avrebbe fatto scappare (per la paura di sentirmi dire
pecorà! contadì!), io me la figurai disposta a compiere con
me perfino il peccato: confesso che, nel vederla uscire dall’
acqua come il meglio di Venere e Giunone, m’immaginava
nascondigli tra i faggi mossi dal vento del mio Canfaito,
dove portarla per farle riascoltare, lì spigliato, la stessa
voce del mare e riversare su di me tutto l’ardore
inestinguibile di quelle sue mani.
Ora che son vecchio, quanto vorrei, nel togliere adagio il
binocolo da lì dietro Loreto, dove il sole spesso risorge
facendo tremolare la marina, prima che colori di luce
limpidissima i colli / festanti e le convalli / popolate di case e
d’oliveti – quanto vorrei da questa vetta, con chi più
l’assomiglio, svegliare l’ultima aurora (la concubina di
Titone antico) e vederla sfolgorare (fuor de le braccia del suo
dolce amico) prima della mia solitaria agonia.
Se le cose qui ricordate sembreranno in un tratto lascive,
dico, prendendo da Marziale: le cose dette, sì, ma quelle
fatte, no. E aggiungo questa giustificazione che fu già di
Catullo: anche il poeta, se pio, dev’essere casto; mai versi
(se il lettore non è impudico) non è necessario che lo siano.
Nel precisare questo ammetto, però, che in me vince spesso
la concupiscenza: la tendenza a non essere sempre pudico.
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