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Mi scuso di questo tergiversare e dell’ultima divagazione:
è difficilissimo per chi non è un grande scrittore parlare
di ciò che gli sta a cuore senza dire qualcosa di troppo.
Sarebbe, inoltre, lungo assai (perché la brevità talora è
incompatibile con la chiarezza e la precisione) far l’elenco e
descrivere (come si dovrebbe per farne risaltare le peculiarità
che dimostrano di avere a chi guardi da quassù), non solo i
casolari e i villaggi sparsi per le campagne o le città
costruite in maggioranza sui colli e che si guardano, per questo,
l’una e l’altra come assopite e, al sole, quasi sbadigliando
sonnacchiose, ma pure quelle ai lati dei fiumi e quelle più di
recente costruite o ampliate lungo tutta la riviera.
Lasciando il suo litorale, sono indotto a puntare subito
lo sguardo su Recanati e sul colle de L’infinito
(foto 90);
e a figurarmi lì un Leopardi non più giovane e ritornato al
paterno ostello, come avrebbe voluto dopo aver sofferto il
soggiorno d’una città, per lui recanatese, “africana” come
Napoli. Me lo immagino solitario e seduto dietro la siepe e
col suo cannocchiale scrutare nel panorama anche questo
colle di Pitino con la sua torre antica; e poi sentirlo
mormorare (si cita a memoria e in parte s’interpreta): «Quando
da quest’ermo colle rivedo quei monti azzurri, che un
giorno io mi pensava di varcare (arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio) ; e quando guardo di nuovo la
natura in questi luoghi, che sono ancora ben coltivati e so
che sono , anche per questo, veramente ameni, mi sento
come trasportare fuor di me stesso, tanto che mi parrebbe
di far peccato mortale a non curarmene e a non elogiare,
dopo averli diffamati a mal mio grado , la gente
marchegiana e il mio paese; ai quali dovevo e devo tutto (e mi è
d’obbligo dirlo e smentirmi del contrario già troppe volte
detto) quello che ora mi torna ad elogio: la mia educazione
e per intero la cultura mia».
Dire che questo recanatese è il maggior frutto del nostro
territorio, un marchigiano da mettere, in una graduatoria
mondiale, ai primi posti come poeta e scrittore, e da
paragonare solamente ai greci , è oggi cosa ammessa da “color
che sanno”, cioè da tutti i saputi più e meglio ammaestrati.
Eppure questi diffamatori della nostra terra, pur non
credendo ai miracoli, lo dissero e tutti lo dicono ancora frutto,
non si sa come, della peggiore arretratezza esistente al
tempo in cui nacque: della più retrograda provincia dello
Stato più sottosviluppato e più reazionario di tutta l’Italia
pre-risorgimentale. Un pregiudizio, questo, mai irrevocato
perché voluto irrevocabile.
Osservando poi lentamente nei particolari la città (che a
guardarla da Pitino si distende, quasi a far da corona, poco
sopra l’agglomerato ancora tutto di color biscotto della
quant’altra mai leggiadra cittadina di Treja)
(foto 90),
si indugia a cercar nel “borgo” la vetta della torre antica del
passero solitario; e, sostando nella parte terminale a
sinistra, a scorgere i fabbricati che in prospettiva fanno un
tutt’uno con le prime costruzioni di Loreto; dove, sia pure
per poco, si rendono visibili, sullo sfondo azzurro del
mare, il palazzo apostolico, il campanile del Vanvitelli e la
statuina della Vergine in cima alla cupola del santuario.
Guardando si recita mentalmente il verso leopardiano che
si riferisce (ma a quei saputi di sopra, chissà perché,
dispiace che si dica) alla “traslazione” della Santa Casa: l’
antico error, celeste dono, ch’abbella agli occhi tuoi (cioè
della sorella Paolina) quest’ermo lido .
Ma da Pitino, necropoli picena, il pensiero va subito in
cerca di Numana; e il pensiero, superando archi di tempo
immensi, compie un tuffo immediato nella storia della
“marca” più antica: quella del Piceno. Eccezionali reperti
archeologici (dissepolti dalla necropoli di Pitino e portati, dalla
cultura burocratica, a riseppellire, come si fa con ogni refurtiva,
nei sotterranei di quell’Ancona, tiranno capoluogo di regione)
testimoniano che le conoscenze, la tecnica e i prodotti della
civiltà antica, anche babilonese, arrivarono fino a Numana e
da qui a Pitino; cioè in uno degli insediamenti più importanti
del Piceno che li ha conservati per secoli prima di esserne
legalmente derubato, nella generale indifferenza, dal cosiddetto
“progresso culturale”. Quei piccoli resti
(foto 205-234) d’una
antichissima nostra civiltà, se fossero stati non sottratti, ma
custoditi ed esposti nel luogo d’origine, avrebbero potuto,
mantenendo per intero tutto il loro significato e valore,
aiutare la mente e la nostra immaginazione a rivedere quella parte
del panorama della storia di Pitino ormai visibile non più con
gli occhi né col binocolo, ma col solo pensiero; pensiero che
ha occhi per vedere e rivedere cose di noi umani accadute in
un passato remoto, sepolto in ere antichissime e che le nostre
pupille, senza guardare quei reperti, non possono più aiutarci
nemmeno ad immaginare.
Pitino poteva essere in loco non solo un piccolo gioiello
di museo della civiltà picena, ma pure – come suggerì il re
Gustavo Adolfo di Svezia in un sopralluogo di tant’anni fa –
un centro internazionale di tecnica di scavo archeologico. A
prova di questo, Sabatino Moscati, segnalando dalle
colonne del Corriere della sera solo Pitino e Numana come i più
importanti insediamenti piceni delle Marche
(foto 144-147),
anni fa scrisse che a Pitino c’era un tesoro di informazioni
che ancora non si era finito di scavare. Ciò che, scavando,
era già stato reperto, avrebbe potuto fare da esempio e
contribuire in maniera decisiva, se conservato in loco, a fare
delle Marche (come si dice che sia, ma, a motivo di quella e
di tant’altre sottrazioni, non è) una regione-museo.
Castelli e fortezze
Lasciando di guardare con questo rammarico il litorale
numano e recanatese, rivolgo di nuovo lo sguardo verso
l’interno; e cerco, ancora con leopardiana mente, le mura e
gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi
nostri , che sono disseminati in tutto il panorama. Lo
sguardo (uno di quelli che da qui si stendono intorno come cerchi
da un punto della riva sulla superficie dell’acqua) si ferma
sulla città di Sanseverino, per secoli rivale, più a lungo assai
di ogni altra, del castello-fortezza di Pitino. È stata sempre
la sua elevata e centrale posizione geografica a rendere
molto appetibile il possesso di questo castello: chi lo possedeva,
era in grado di sorvegliare e dominare non solo a palmo a
palmo tutta la sua grande collina, ma pure tener sotto
controllo l’intera valle del Potenza, cioè le comunicazioni, i
traffici di merci e i movimenti degli eserciti nel cuore del
Maceratese, dalla montagna al mare, dalla Marca
anconetana all’Umbria. Per impadronirsi o per conservare, a sua
difesa e vantaggio, questa importante posizione strategica, il
Comune di Sanseverino in tutto il medioevo non esitò a
guerreggiare, con ammirata ed insieme deprecabile
ostinazione, contro tutti i castelli e i comuni limitrofi.
Osservando svettare la torre del mastio, quella
campanaria del duomo e le parti visibili della cinta muraria del
castello di Montenero (un insieme architettonico ancora
splendido, che costituiva prima l’ acropoli e ora l’orgoglio
della città)
(foto 93-96), penso che ogni successore
dell’antico “lucumone” o re o comunque capo piceno di Pitino –
ora non ricordo più bene se si chiamasse così, ma me lo
immagino come il suo monumentale collega di Capistrano
(foto 235) – aveva davanti agli occhi ogni giorno il nemico
da cui guardarsi e difendersi. Ogni feudatario di Pitino
dovette, infatti, allearsi più volte con questo o con quello:
farsi vassallo ad ora ad ora non solo del comune di Treia o
di Tolentino, ma ad un tempo confederarsi, oltre che a
questi insieme, anche con Cingoli e Camerino,
coinvolgendone altri ancora per sottrarre il suo feudo dalle grinfie
dei Sanseverinati. Ma furono tutte alleanze vane: Pitino è
stato più volte preso e lasciato e alla fine vinto e
smantellato come tutte le fortificazioni e gli altri castelli (21 ne
elenca il Talpa tra castelli e rocche) confinanti con quello della
fiera fierissima, ma non per questo sempre avveduta e
lodevole, città di Sanseverino.
Nel tentativo di rintracciarne i principali per guardarli
nel panorama ad uno ad uno (soltanto il castello di
Carpignano, Civitella e Gàgliole non era e non è possibile
scorgere da Pitino), da qui, dopo la demolizione della
guardiola, più non si vede il castello di San Lorenzo, che
fu più volte, come è oggi, sotto il comune di Treia: solo
da un grosso rotolo in pergamena, ora custodito
nell’archivio dell’Accademia Georgica della città, si sa della
sua vicenda definitiva.
Della rocca, qui di fronte, di Monteacuto, detta
Roccaccia, ora si rendono visibili
(foto 97) pochi ma imponenti
ruderi, che sembrano ancora tenere a bada il sottostante
castello di San Lorenzo e con esso Motecchio (Treia), e scrutare,
come fecero per secoli, le valli del Musone e dell’Esino.
Della rocca di Civitella - invisibile non tanto perché
dietro questo monte Acuto che mi si para davanti, ma più
perché fatta, 10 secoli fa, interamente sparire - nemmeno il
più piccolo brandello d’un muro si è più trovato sul
culmine della collina dove viveva tranquilla e inoffensiva: fu
proditoriamente e per decisione dei boni homines del
Municipio sanseverinate (liberi e fieri, ma pure aggressori)
assalita in un giorno di festa, rasa al suolo, saccheggiata e
poi depredata, come pare, anche delle rovine per impedire
che la sua ricostruzione ridiventasse autonomia, neutralità
o, forse, alleanza con altri. Ricordatevi - scriveva un
conosciuto scrittore di un tempo - che le mura delle città si
fanno con le macerie delle case del contado. E un altro, poeta,
non meno famoso: Odo già il brusio del borgo. / È qui il
paradiso vero del popolo: / felici e contenti tutti quanti.
Un altro osservava: Tutti sanno essere buoni in campagna.
E Calvino (Italo) concludeva: Le città, come i sogni, sono
costruite di desideri e di paure . A questo io aggiungo,
certo banalizzando (ma non troppo, se ripenso ed immagino
che fine riservarono i sanseverinati agli abitanti
di “Ciuetélla”, Casavolla e Truschia), che le derattizzazioni urbane
sono troppo ingiuste: la cosa peggiore delle città spesso
non sono i topi, ma gli uomini che le abitano. Tuttavia, a
proposito di aggressori e aggrediti, c’è stato pure chi, da
storico insuperabile per genio e imparzialità, scrisse:
«Nessuno, potendo fare impunemente un acquisto ingiusto con
la forza, vi ha mai rinunciato per benevolenza o in
omaggio alla giustizia; e, da emulo pessimo, un altro aggiunse:
e tu fa prima agli altri il male che gli altri potrebbero fare
a te» . Ma quelli di Civitella non avrebbero potuto fare ai
sanseverinati il male che questi fecero a loro. Chiedo
scusa, se passo per un ammiratore della prima frase messa in
corsivo, ma disapprovo la seconda: un’immoralità
predicata è più deprecabile e punibile di un’azione immorale. E i
Machiavelli, proprio perché in vesti curiali e lodati, sono
più biasimevoli dei Borgia: questi hanno commesso
crimini e delitti; quelli dicono che si dovevano commettere.
Gratta il Machiavelli, e troverai un Borgia: un boia che
davanti ad una mannaia e un cippo insanguinato fa diventare
il crimine un diritto. Anche quando è usata per una causa
giusta, la violenza, come la punizione, è cattiveria, un
male; e trasforma la stessa giustizia in ingiuria. Pauroso (pare)
e gretto, il segretario fiorentino, forse maestro di quei boni
homines autori di quell’eccidio, aveva, benché “laudato”,
un animo da poco, e faceva gli altri tutti uguali a sé stesso.
Pur non vedendo la collinetta dov’era, così, con queste
considerazioni ricordo quel piccolo borgo fortificato di
Civitella, che nessuno mai più menziona e dove ora si va
dov’era solo se si è in cerca di corniole, fragole e funghi.
Di Serralta
(foto 99) non si vede da qui l’arco d’ingresso,
la struttura principale in grado di ricordare, insieme a tratti
di mura, che sia stato un castello. E di quello di Isola
(foto98)
svetta, invece, imponente, anche se diroccata, la sola
costruzione rimasta: la mole grande e robusta del mastio.
Di un paio di noti ruderi di Castel San Pietro
(foto 100), che
spicca luminoso col suo campanile tra il verde cenere della
campagna e il marrone ingiallito della boscaglia, non se ne
scorge nessuno. Del borgo fortificato di Elcito
(foto 101) si
sa e si vede, invece, che più non esistono il mastio e il
maniero: il primo demolito da milizie del Municipio di
Sanseverino verso la fine del 1200; il secondo, per
rappresaglia contro le facili bravure partigianesche – a nemico che
fugge si fanno ponti d’oro , e non aggressioni, agguati e
sabotaggi: se il ponte romano della nostra città a Fontenova
fu anch’esso fatto saltare, lo fu a causa di quei bravi ! – il
secondo fu come questo fatto crollare, ancora per
rappresaglia, dalle mine dei soldati tedeschi sul finire dell’ultima
guerra. È ovvio che mi soffermi a vedere se la mia
casupola sta ancora lassù, su quello sperone di roccia; e che riviva
per alcuni secondi i giorni in cui, legato ad una corda e
penzolando in lungo e largo su quella parete a strapiombo,
mi feci muratore perché non precipitasse sul fondo quella
che per tutti era la casetta non di Giosafat, ma di Giove.
Malvolentieri lo sguardo si distacca da questo piccolo
paese alpestre dal sapore andino, che un tempo fu celebre (da
celeber che significa molto popolato e per questo assai noto)
ed imprendibile come il castellaccio dell’Innominato ;
ma ora, senza più un’anima che vi soggiorni, senza un
camino che fumi, somiglia per intero ad un abbandonato
rifugio di briganti tutto l’anno, tranne in estate per il suo
innegabile fascino: per il panorama, non ampio come questo
di Pitino, ma un connubio meraviglioso di aria e di vento,
di silenzi, di colori e luci.
A guardare dov’era il fu castello della Truschia – detto
la Torre
(foto 102)
dopo la prima distruzione fatta, nel 1218,
sempre da quei prepotentoni (così direbbe il Porta) di boni
homines , che la uguagliarono alla terra con ferro e fuoco –
mi viene un nodo in gola. Perché la Truschia era, in antico
e da qui, come Limonta del “Marco Visconti” in faccia a
Lierna: una terricciola (assurta a feudo, con tanto di
castello), presso che ascosa al guardo di chi la cerca a
mezza costa tra i colli
(foto 102)
e la boscaglia dei monti attorno
al Sanvicino. Ora, lì dove sono cresciuto, non c’è più nulla
che si possa da lontano vedere: tanto poche e coperte dalla
vegetazione sono le rovine rimaste. Solo con la memoria
rivedo, della Truschia, il sotterraneo della Torre che so
coperto dai rovi (e dove Fofìola prima suis me coepit ocellis ),
poi il piccolo avanzo di un rudere nascosto ancora dal
bosco sul cono del Castellaro
(foto 104)
e, dietro, il casolare
che era sulla radura di Roffiano, dove vissero pure i nonni
di mio padre ed io vi fui ragazzo insieme al mio primo
amico, Otello Marasca, e quel carissimo, indimenticabile e
temuto mattaccio, Francì de Timoto . Di lui ricordo che i
tuoni, i lampi e la pioggia ci fecero incontrare di corsa e
conoscere al capanno di quell’omone di Ulisse. Che fosse
diverso lo vidi subito: emozionato per avermi davanti la
prima volta, balbettando e ribalbettando non riusciva a
dirmi chi era, perché Francì non sapeva né capiva di
doversi chiamare sempre Francesco. Che non fosse tutto lo
seppi dopo: lui, ritenendo ogni cosa capace d’intendere e
volere, parlava alle pecore, sgridava nel sonno i lupi,
perdonava irato gli spini, rimetteva in acqua i gamberi dopo
un lungo sermone. Io riuscivo a divertirlo: gli mettevo
davanti le mie mani, spiegandogli qual era la destra e quale la
sinistra; poi le mescolavo e gliele rimettevo di nuovo
davanti, domandandogli: qual è la destra - qual è la sinistra-
Lui le guardava fisso, e poi, rispondendomi, tirava ad
indovinare. Al bravo, Francì , bravo!, lui rideva, rideva,
battendo, felice, i piedi e stropicciandosi le mani. Chi dei due
fosse più felice o il più minus habens , io ora non saprei.
So, però, che lui è stato con me il più buono di tutti: mai
mi fece l’obbligo di non apparire né di scusarmi di essere
stato più intelligente di lui. Di solito niente ferisce gli
amici più di questo, specie se sono più di noi avanti in età.
Cessato un tale ricordo e sempre con la sola memoria,
rivedo pure il cascinale di Camporaglia e, prima e sotto di
questo, le due casupole della Romita. Dopo i fatti, tanto
superflui quanto infausti, della nostra resistenza partigiana,
la zona, abbandonata da tutti, è tornata ad essere
rapidamente del tutto inumana. Per la desolazione (sono spariti
sotto terra perfino i tetti delle case!) portatavi da quella
disgraziata vicenda e poi dalla modernità, nella mia terra
natia so che, ormai da lustri, per nessuno rinverdisce né più si
rinfiora la primavera. E so che la strada (dove ai bordi si
udiva l’usignolo cantare la sua pena e dove tra i rami
fuggiva il pettirosso; dove ebbi la gioia d’avere un mantello
ad ogni tormenta e dove, fermo, ascoltai il fragore del
fosso grande venir su dai gorghi sotto Castellaro; dove,
camminando, sentii spesso gemere la brina, la neve crepitare
sbroscia e le foglie frusciare sotto i miei passi) – so che
quella strada, ancora a tratti aperta al vento, al sole e alle
bufere, a qualche lupo, al tasso e alla faina, muore deserta
nel primo cascinale fatiscente del villaggio abbandonato di
Valliola: la casa che fu di quel gigante dal labbro leporino,
di quel boscaiolo e tinto carbonaro dagli occhi di brace, di
quell’accigliato “mangiacarline” di Ulisse Gregori. Come
si rifà bambina! come corre e ricorre la memoria, quassù!
Più consistenti, soprattutto per la superstite torre,
appaiono, invece, le rovine del castello di Aliforni
(foto 105).
Chiudo gli occhi e rientro nella sua chiesa castellana per
risentirvi, mentalmente come la prima volta, il suono
dell’organo: un gioiello venuto da Roma, un Catarinozzi lì
ora in completa rovina, non frequentato più nemmeno da
topi, ma che una volta si dice fosse stato suonato dal giovanissimo Mozart.
Non si vedono più, invece e dopo il loro restauro e la
parziale ricostruzione, le rovine della rocca o castello di
Schito
(foto 107)
laggiù sopra le “rote” del Potenza. I boni
homines odierni, insieme agli esperti quando ne parlano,
dicono, con disprezzo, che quel restauro è gratuito ; e
dicono il vero perché, infatti, non è costato nemmeno una lira
allo Stato, grazie ad un uomo (Ernesto, mio padre) che
molto oprò col senno e con la mano . E il disprezzo nasce
non tanto perché quel restauro è malfatto (se non per altro
perché può essere fatto meglio), quanto piuttosto perché fu
da me, incompetente , identificato come la rocca o il castello
di Schito; e reso, per di più, alla meglio abitabile senza
sentire il parere di quelli che di Schito non sapevano nulla,
nemmeno che esistesse dopo essere stato dai loro antenati
fatto diroccare come tutti quei castelli del contado che, se
pur rifatti così, farebbero la fortuna anche del nostro
Comune. Quasi tutti i miei concittadini si sono comportati
finora come quel don buffone di Amedeo Gubinelli buon’
anima; che scrisse non per far ridere (ch’era il suo riuscito
mestiere): Schito non è un castello vero e proprio , senza
dire cos’era, per non averlo mai né visitato né visto,
nemmeno una volta. Molti eruditi si comportano ancora come
lui e Gualberto Piangatelli, cioè come Cremonini, che si
rifiutava di guardare nel cannocchiale di Galileo per non
vedervi smentito Aristotele, cioè la dotta supponenza.
Solo la punta del campanile mi fa subito localizzare il
castello di Colleluce
(foto106 ).
“Quel maestoso colle
interamente isolato all’intorno... Trovasi come di fronte a due
valli… «Bella posizione! strategicamente bella!», non puoi
fare a meno di esclamare” , guardandolo. Castello dal
nome splendido (ma oggi dovrei dire “solare”!) e vero (anche
se gli storici propendono a trarne origine e significato da
colle della selva o del bosco sacro , cioè da lucus e non da
lux ). Osservando il poco che si scorge dell’abitato (in varie
epoche “celebre”, cioè popoloso quanto Pitino), ripercorro
mentalmente il tragitto del girone nei tratti delle mura
ancora esistenti; e rivedo come e quante volte e quanto
repentinamente la luce della campagna tutt’intorno al colle
cambia di colore, prima di rendersi, pur macchiettato,
uniforme nelle diverse gradazioni del marrone, nei tratti di un’
ampia e rigogliosa boscaglia. Un bel panorama, un bel
vedere davvero; più sereno, più intimo e raccolto rispetto a
questo di Pitino. E se la storia è la conoscenza
dell’infelicità umana perché è, secondo Voltaire, un quadro di
delitti e di sventure , allora Colleluce, benché smantellato al
pari degli altri castelli, si deve ritenere fortunato. Perché,
per quanto io ne sappia, non ha una storia così; o, se ce
l’ha, è senz’altro “mediocre” per scarsezza di eventi di
solito noti solo perché da incubo. Colleluce credo che sia
stato castello di origine monastica come Elcito: costruito per
rifugio e a difesa, e non come strumento di aggressione a
motivo o pretesto del poter vivere in sicurezza e pace. L’ho
domandato in paese, ma nessuno mi ha saputo dire dov’era
né se ci fu mai una prigione.
Ricordo quando, da ragazzo e insieme ad altri, vi fui
portato da don Massimo Nardi a far visita ad un santo fuori
paese. Era uno della famiglia De Angelis: un giovane
invecchiato anzitempo, privato com’era, dal male, della sua
giovinezza; un disabile sereno, un infermo felice.
Pronunciava qualche parola, ma solo la vista gli funzionava bene.
«Gioisce – disse la sorella dell’infermo (o di Albino Calamante?)
che gli era daccanto – quando si apre la finestra e
gli entra la luce. E spesso, luce - dice contento ad ogni
risveglio - più luce! ». Ora, ricordare questo, mi fa pensare
che il solo uscire dall’oscurità col sopraggiungere della
luce del giorno, come gli veniva diffusa dalle sinuosità di
quel colle, lo ripagasse di ogni strazio, anche senza vedere
un panorama come questo da Pitino, ma spesso solo uno
spicchio di cielo. Chi sa, forse la vita gli appariva degna di
essere vissuta comunque, perché il vivere era, forse, per lui
come Bufalino dice che sia: fruire uno squarcio di luce ,
che ci permette di prevedere un’altra vita. Nel mormorare,
infatti, le sue orazioni, lui diventava - dissero - come
trasognato: come in contemplazione di un mondo fatto di
tutt’altra natura. Spinto da un tale ricordo, sono tornato più
d’una volta lì dove si dice che ora riposi (ma che stesse lì,
prima sotto terra e ora sul nuovo loculo, io non ci ho mai
creduto, non ci posso credere: lì c’è solo il resto del suo
disadorno ammanto in attesa d’essere diverso).
Anche solo con quest’umile biografia la storia di questo
castello per me, quindi, sarebbe di maggior lezione rispetto
a quella, spesso drammatica, di altri castelli del contado. Io,
insomma, di esso, ora che lo guardo da questa torre, ricordo
solamente che vi ho visto risplendere, in un modo tutto
particolare, i molti colori che vi assume l’essenza di tutte le
cose; e quindi sia quella di quel defunto che beveva con gli
occhi la luce del colle, e sia quella degli amici che vi
abitano: sono due, sono ormai vecchi quanto me anch’essi, sono
i migliori. Ci ho provato ad essere uno di animo come loro,
come un De Angelis. Ma - che io sappia - non ci sono
riuscito neanche un po’. Non sarà mica - mi domando da
insincero e in cerca di scuse - perché la mia è una luce
diversa, cioè di un altro paese?!
Chiese, eremi e abazie
Nel ricercare dov’erano i resti delle due casupole, a me
noti, della Romita nel territorio dell’antica Truschia – resti
che, da qui, si sarebbero potuti scorgere se ci fossero
ancora, ma tutto ciò che di artificiale in quella piccola radura vi
fu fatto dagli eremiti e dopo, è tornato ad essere del tutto
naturale – faccio la costatazione che di eremi o dei loro
ruderi (e ce ne sono, e di importanti, perché, dal tempo delle
invasioni dette dei barbari e per alcuni secoli, gli eremi
fecero in loco da culla alla civiltà cristiana), da qui non
riesco a vederne nessuno. E mi sto dando la spiegazione:
perché - mi dico - se si vedessero e fossero facilmente
accessibili, non sarebbero eremi. Ma degli eremi, ossia degli
eremiti (Romualdo da Ravenna, Francesco d’Assisi,
Domenico Loricato, uno dei nostri, Pier Damiani ravennate
anche lui, Michele Berti da Calci) si vedono e si sentono
ancora dovunque gli effetti stupendi per ardore spirituale e
senso dell’umano. Di tutti loro si sa qualcosa, e molto di
alcuni, tranne che di frate Michele, dell’ordine dei
Fraticelli di povera vita : la cronaca che narra la sua partenza da
Sanseverino, il processo subito, i suoi ultimi giorni, la
sentenza di condanna e la morte sul rogo a Firenze, è opera
quasi sconosciuta, benché sia - si dice - uno tra i più
commoventi e vivi testi della nostra letteratura cosiddetta
minore. Pensando a loro, penso che le azioni sono figlie dei
pensieri; che le idee, quelle suscitate dai più umani e forti
sentimenti, sono la causa delle cause; che sono esse che
muovono il mondo. Penso quindi che le idee di quei
monaci, nate e coltivate in quegli eremi, sono state le cause
che hanno in gran parte plasmato il meglio della civiltà
cristiana ch’è nostra. Per questo ripenso all’eremo di Soffiano
e di sant’Eustachio
(foto 109),
al santuario di Macereto, alle
abazie di Fiastra, Rambona
(foto 108),
sant’Eustachio, Roti,
Valfucina, Valdicastro, al monastero San Mariano a
Colleluce, Beato Rizziero a Muccia; alla piccola grotta di san
Franceso sul Sanvicino, a quella rupestre, ancora più
piccola e sconosciuta, della Romita e al convento degli
eremiti Clareni, che fu qui di fronte, sul poggio di Valcerasa a
Treia: luoghi d’ineffabili esperienze bisognose di
solitudine, di macerazione e di preghiera; dove la fede religiosa si
fece più energica e viva, volta più che alle pratiche
esteriori e di posa liturgica, a quell’ itinerario della mente verso
Dio che è l’essenza della vita religiosa e cristiana.
E le chiese? Neanche le chiese si vedono bene e
numerose come ci si aspetterebbe di poter ammirare. Per lo più
di esse, inglobate nell’abitato, si scorgono solo i campanili.
Così è delle chiese di Sanseverino, Treia, Recanati e
Loreto, Osimo, Potenza Picena, Montelupone, Pollenza,
Sanginesio. Lontano, laggiù a sud, sull’ultimo orizzonte,
s’ indovina, però, emergere possente il duomo di Fermo
(foto 91),
che sembra scrutare, come per dominarle, le creste di
Falerone e San Ginesio. Per intero, dopo l’abazia di
Rambona, si vedono solo i santuari ancora fuori dell’abitato: il
vicino Santuario del Crocifisso di Treia
(foto 91)
ad est, e quello - credo - di Campocavallo in Osimo, mentre a ovest,
sopra l’acropoli del castello sanseverinate, il santuario
dedicato a san Pacifico: una stella del mite e del forte Piceno,
uno dell’illustre famiglia settempedana dei Divini.
È inevitabile ch’io vada da qui alla ricerca della
“Madonnetta d’Aria”: un alpestre rifugio e oratorio dedicato
alla Madonna della neve. In un giorno di festa immagino
lassù due giovanissimi al loro primo incontro: Erminia,
d’aspetto gradevole, con i capelli crespi portati a metà
della fronte; che guarda Ernesto, vestito di nuovo e venuto da
Sant’Elena fin lassù per vedere se è bella come gliel’hanno
descritta e parlare con lei. Si sorridono e, pur tra la folla,
discorrono come in disparte: da loro partono messaggi
reciproci, che essi non sanno di dare e di avere, e per questo
si piacciono. Ed io ringrazio Chi gli fornì di quei messaggi
per farmi nascere. Ma come sia successo un evento così
importante per me, non mi è stato mai detto. Perché
nessuno, forse, l’ha mai saputo né lo sa.
Ma a catturare la mia attenzione è la nuova chiesa
costruita qui in basso
(foto 120) :
una chiesa conciliare , si
disse; una chiesa, cioè, che, nel tentativo di essere
“conciliante”, non si capisce cos’è, tranne una mostruosità, perché
inconciliabile con l’ambiente arcaico dov’è collocata.
La riflessione, che ora essa mi fa venire, è la seguente:
molte opere degli antichi son diventate, qui a Pitino,
frammenti dopo secoli; una dei moderni lo è, invece, già al suo
nascere, perché ne appare precoce tutta la fatiscenza. Questo
contrasto suscita in me una serie d’interrogativi. Perché si
prova una segreta attrazione per le rovine? Questo dipende
dal sentimento di fragilità della nostra vita? C’è una segreta
conformità tra questo castello disfatto e la rapidità della
nostra esistenza? Per me - rispondo - è proprio così. Pensando
che uomini di un popolo intero, pur non avendo potuto
vivere che i pochi giorni loro assegnati dalla natura, sono rimasti
famosi come gli antichi Piceni di qui, questo consola la mia
solitudine e mi spinge a considerare normale e senza
rammarico la mia fugace esistenza e piccolezza.
Dopo questa divagazione, il binocolo riprende a
cavalcare dalla “Madonnetta” verso ovest e a scorrere nella
valle creata dal fiume Potenza, che inizia il suo corso dal
monte Pennino, massiccio che da qui appena si scorge,
nascosto com’è dietro la groppa del monte Igno. E dopo
le strette, brulle e rocciose pareti di Pioraco, essa si sa che
si allarga non visibile prima verso Camerino e Matelica e
alle spalle del Sanvicino. Ma poi, da Castel Raimondo,
superata anche la gola fra Gágliole e Crispiero, si vede
aprirsi a destra verso e sotto le alture di Villa d’Aria e i
rilievi di Colleluce, Serrapetrona e Cessapalombo; mentre
a sinistra inizia andando da Serripola ai monti di
Stigliano e Camporaglia, per biforcare infine sotto l’altipiano
del Canfaito e la mole del Sanvicino, da dove, dopo
Elcito, si unisce alla valle di San Clemente, creata all’origine
di Valliòla dal fiume Musone.
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