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Dopo quell’affondo e questa cavalcata nel panorama,
mentre poso il binocolo sul muro del parapetto, una coppia
di piccoli falchi, e forse per questo giovani, plana diretta
più volte verso di me. Si notano segni della loro frequenza
su questi parapetti; e m’immagino per questo che siano
soliti fare quassù anche la loro adunanza amorosa.
Contrariati, forse, dalla mia presenza e benché siano gli uccelli
naturalmente le più liete creature del mondo , il loro squittire
mi arriva portato dall’aria come un triste, affettuoso lamento.
Tuttavia mi spingono a pensare e a dirmi: se gli uccelli
qui volano e cantano, significa che la vita potrà trovare qui
ancora uno scampo per qualche tempo.
Dopo averli seguiti sparire pensando se e a che grado
abbiano loro coscienza del proprio esistere che a noi pare
fortunato, rivolgo lo sguardo su ciò che sta sotto e attorno
alla torre, prima che alle sue adiacenze. La consapevolezza
del sublime avuto finora cessa di colpo.
L’immediata sensazione di squallore e di desolazione
avuta nell’arrivare e nel considerare ciò che del castello era
stato fatto sparire, crollare e finire in macerie, si prova di
nuovo; e cresce , nel guardare ora dall’alto più facilmente e
con un sol colpo d’occhio, lo stato in cui è così malridotto
(foto 47,49, 66,67,80,81)
quello che del castello era e poteva
essere ancora abitato fino ad alcune decine di anni fa: tratti
di mura di cinta in uno stato di misera ma fiera
sopravvivenza, baluardi ed arco d’ingresso in una maggiore
condizione di deplorevole fatiscenza; erbacce (in prevalenza
spini ed ortiche) cresciute dovunque; travi di tetti scoperti;
pavimenti sfondati e smattonati; porte e finestre divelte;
residui di oggetti in tutta plasticaccia e disseminati
dappertutto. La devastazione e l’incuria riproducevano di nuovo i
loro effetti sia sulla chiesa principale
(foto 52-53) col suo
campanile ancora privo (spogliato, cioè, da quei boni
homines ) delle sue campane, e sia sulla chiesa piccola
(foto60–68)
(anch’essa resa senza campanile e la sua piccola
antichissima campana), benché entrambe già fatte oggetto di
parziali restauri e tamponamenti nella parte esterna (anche
per iniziativa – più che assai scarsa, purtroppo, di mezzi
ma non di divieti e d’ostacoli – del sottoscritto, cui la
benché minima collaborazione o sovvenzione fu mai da
nessuno accordata). Da quell’altezza, insomma, di Pitì bello e
forte si teme la sorte e non si vede esistente quasi più
nulla, tranne l’imponente sua torre e un notevole tratto delle
sue mastodontiche mura. Della dimora feudale [una
costruzione difensiva formidabile collegata alla torre, che
alcuni dati
(foto 58, 59, 66-69, 150, 153)
ed altri indizi pongono
parte affiancata e parte sopra la posticcia chiesa più piccola
– fu trovata traccia di gradini sotto il tetto al primo
restauro], e del villaggio, che risulta essere stato dentro le mura
del castello
(foto 42, 160, 164, 167, 186, 189),
quasi nulla è
rimasto: le costruzioni antiche sono da tempo sparite e le
posticce crollate di recente (quando in altri castelli - come
si è detto - si facevano e si fanno ricostruzioni e restauri);
l’erba ha ricoperto le fondamenta delle costruzioni crollate
e l’acciottolato delle viuzze; e più non si vedono che
immense cataste di pietre come di un paese un tempo
aggredito e da tempo ultradevastato.
Ciò che si vede contrasta con quello che del castello si
sa, si ricorda e s’immagina. Sul finire del secolo XVI, il
colle di Pitino era “celebre” (cioè molto abitato) e il
castello fu scelto come soggetto del “primo” lavoro teatrale,
L’intervenuta ridicolosa , di un tal Francesco Borrocci,
maceratese. Si tratta di una commedia - come si legge nel
prologo - fatta in sdruzolo, alla cingolana , ambientata non
a Macerata o a Cingoli, ma proprio qui miecco Pitine,
castellu de San Seerine ; e poi studiata e pubblicata dai nostri
glottologi più illustri: dal Crocioni nel 1903
(foto 148) e dal
Fedeli nel 1907. Nessuno dell’Italia centrale, prima del
Borrocci e per scrivere un’opera teatrale, si era valso del
solo e puro dialetto; e in nessun altro luogo - per quanto si
sa - si recitò prima che a Macerata (e forse subito anche a
Pitino) una commedia in dialetto marchigiano. Ciò
dimostra quant’era l’attrazione, la notorietà di cui Pitino godeva
ancora nel Cinquecento. E questa prima commedia
dialettale è una fonte di notizie relative alla lingua, alla vita e al
costume di questo borgo fortificato: quassù si parlava,
forse, più in cingolano che sanseverinate; c’era - pare - un
notaio anche per stringere matrimoni; si andava a teatro (che
qui ha continuato ad esistere
(foto 186) fino ai nostri anni
cinquanta, al tempo di don Giglioni); e a Pitino si stava allegri.
Si legge, infatti, nel prologo: Ossù, staate un pó fitti,...
sta sera s’ha da scurdar la lettera… s’ha da piglià
moglie… s’ha da stregne lu nodu… e sentate ben tutti… e
a lo partire ridenno se girrá.
Senza saper nulla, allora, del Borrocci, ma in omaggio e
a ricordo della tradizione teatrale di Pitino, fu inserita, nel
progetto di restauro presentato nel 1971 alla Sovrintendenza
(foto 17,19 ),
la costruzione di gradinate per rappresentazioni
teatrali (o equivalenti) all’aperto
(foto 18); cosa, questa,
allora molto apprezzata da quel commediografo e
commediante di don Amedeo Gubinelli, che per questo
promise un suo lavoro e si disse disposto ad accettare la
nomina a membro del Consiglio di amministrazione della
“Società Castello di Pitino”. Ma neanche in questo le cose
sarebbero andate come previsto.
Spinto dal ricordo e dal rammarico di aver dovuto
smettere di darmi da fare nelle opere di restauro di questo
castello, rivolgo lo sguardo al fabbricato qui sotto, appena
fuori le mura. Ripenso al dottor Francesco Berni
(segretario dell’Archeoclub d’Italia)
(foto 15, 16),
a Flora (foto 199,237)
e alla famiglia Gardi
(foto 200).
Li ricordo e risento
esortarmi unanimi e a gran voce, vista la bellezza del luogo, a dare inizio ai lavori di riparazione e rifacimento di
quel rudere, in parti fatiscente e in altre smantellato, che
rimase di mia proprietà. Mai, purtroppo, nemmeno una
volta si è potuto, e più ormai non si potrà (se non si
sopravvive), festeggiare tutti insieme la fine dei lavori.
È la torre, però, che mi sta sotto i piedi a catturare
ancora la mia attenzione. E penso che lo stato attuale
(foto 54, 58, 65),
rispetto a quello antico
(foto 153, 162, 169),
della struttura, dopo l’ultimo restauro, può dirsi buono. Ma, non
essendo stata ricostruita di essa la parte terminale alla
sommità e la base non più agganciata alle mura difensive, la
vetta della torre tornerà a spaccarsi; e le pietre, ora
divenute a tratti gelive in due spigoli della base, per l’azione
combinata dell’acqua, del sole, del vento e del peso
sovrastante, si sfarineranno tra breve. Così, se nessuno
provvederà, una enorme catasta di pietre si aggiungerà alle altre; e
di Pitino in futuro si potrà vedere qualcosa solo nelle
fotografie. Che io sia un cattivo veggente.
Se, per chi considera con Hegel la storia del mondo il
tribunale del mondo (quel che è successo doveva
succedere; ed è razionale e giusto che sia successo), è comprensibile
che, con l’evoluzione della società feudale in quella
comunale e signorile, per il Comune di Sanseverino fossero
contrarie al suo interesse vitale l’autonomia e più ancora
la dipendenza di Pitino da altri Comuni o Signorie; questo,
oggi come allora, non giustifica, però, il ritenere irreprensibile o lodevole,
oltre che giusto ed opportuno, tutto ciò
che contro Pitino è stato fatto dal nostro Comune. Si pensi
solo di quale vantaggio e prestigio sarebbe oggi per Sanseverino
l’esistenza integrale o la conservazione anche
parziale del castello medioevale di Pitino. Nessuno dei
castelli, che ancora si possono frequentare nei dintorni
(La Rancia, il castello Pallotta, quello di Lanciano, la Rocca dei
Varano, ed altri ancora), potrebbe essere detto “celebre”
(anche nel significato etimologico, già ricordato, del termine)
più di Pitino.
Di fronte alle rovine di questo castello medioevale reso
famoso per secoli dalla fierezza della sua popolazione, è
inevitabile pensare alle alterne vicende, antiche e attuali,
della gente in agro pitinate trans Appenninum , di cui ora
più non ricordo né saprei ben riferire che ne dissero gli
scrittori da Plinio il Vecchio (sua è la frase latina) in poi.
Ma gente fiera so che fu sempre; gente allergica alla sottomissione,
con un che di cipiglio nel contegno: « Siamo di
Pitino e questo basta / Portiamo il cappello a mezza
testa! »
(foto 194).
A mezza testa: mai tirato giù, mai abbassato
come da chi è vergognoso e vinto. Non una maggiore
capacità intellettuale o fisica, ma solo l’energia idraulica
che gli forniva il Potenza, permetteva e permise alla popolazione
del Montenero di averla vinta su quella di Pitino.
Anche chi è di Pitino è un essere in fieri : se autonomo, sa
essere “civile” e qualcuno; se sottoposto, avvilisce e decade.
A dirlo sono le rovine di qui, i reperti nei musei e i documenti
di molti archivi. Questi e quelle dicono che prima
Settempeda e Sanseverino dopo subentrarono a Pitino nel
dominio dell’ampio territorio sottostante; ma né questo né
quella vi riuscirono, con incisione e prestigio, come Pitino.
Lo dimostrano anche gli ultimi aspetti fatti assumere
purtroppo da quei boni homines non solo alla sommità di
questo colle un tempo luogo di una incontaminata bellezza, ma
a tutto il territorio circostante: tralicci in ferro o cemento
sbagliati e da rimuovere, ma che rimangono lì a far bella
mostra di passeri, che sembrano incerti se rimanere o volar
via; ettari di pannelli (non so di che fatti) piantati al posto
di filari o vigneti, con accanto enormi scatoloni in cemento
che si rendono sgradevoli se per caso dattorno hanno ancora
qualche sopravvissuta casupola di paglia e fango; chiese
come sottoscale o “garage”
(foto 120);
enormi e abbaglianti
vetrate che fungono anche da pareti esterne: opere tutte che,
per molti, ora sono motivo di orgoglio e fanno anche da noi
una gran figura di sé. Insomma, a prima vista e anche da
qui, ciò che ora del panorama subito attrae la vista è il
cosiddetto lodevole e da tutti lodato progresso.
Spiccano soprattutto le fabbriche più nuove sia per la
voluminosità e quell’eccessivo sovrapporsi della loro
simmetria al naturale che ignora la linearità, sia per il loro essere
costruite per lo più su terreno pianeggiante, che con il
fondo verde delle sue superfici dà a quelle immediato e ancora,
nonostante una generale e rapida assuefazione, non
sempre né a tutti gradito risalto.
Non sono più costruzioni come una volta: di pietra viva
e mattone pallido di un color terrigno (come piaceva pure
al D’Annunzio), un tutto “a vista” che dava, quindi, l’idea
di schiettezza e verità. I neutri scialbi delle facciate a serie
di ora ci fanno consapevoli che dentro e fuori anche il vivere
lì oggi è pur esso ridotto a nuove maniere, che non di
rado nascondono, se c’è, o fanno dimenticare, se c’era stato,
tutto l’antico. Anche lì da noi già da tempo si vive e
lavora nell’arco dell’anno in modi tanto diversi da quelli
d’una volta: da lì dentro so, per aver lavorato in locali simili
per anni da giovane e dopo, so che più non si vedono
le aurore e i tramonti della fanciullezza, la luna col suo
corteggio di stelle, né più si assiste al nascere e al succedersi
delle stagioni; né lì gli animali (sostituiti dalle macchine
e ora anche dalle apparecchiature elettroniche) fanno
più, solidali, la vita laboriosa con gli uomini, come quando
anch’io ero un ragazzo tutto di campagna. Tuttavia è proprio
questo avanzare del moderno che ora serve a proteggere
e che spinge ad apprezzare di più quel poco di naturale
e di passato che Pitino riesce ancora a rappresentare.
***
Il colle di Pitino e dintorni
Ho dattorno, dunque, un paesaggio nuovo, “modellato”
in parte dalla modernità, dalla più recente maniera di vivere:
tecnica, meccanica, elettronica. Di esso, purtroppo, più
non ricordo che ne dissero né, tanto meno, riesco ad immaginare
che ne direbbero prima Virgilio, Columella e
Plinio il vecchio o il giovane, e poi i monaci eremiti e abaziali
che, dopo le incursioni barbariche, diedero inizio ed
insegnamento nel dissodare e rimettere a coltura gran parte
di tutto questo ambiente. E si veda quanto, in poco tempo,
è mutato il panorama da quando gli abitanti di Pitino, senza
petrolio e plastica, coltivavano, come gli antenati, il loro
giardino!
(foto 183, 184).
Mi si dirà che non è proprio
questo nostro ambiente il luogo più adatto per recriminare
contro il progresso e la modernità. Altrove la situazione è
di molto peggiore: la civiltà vi ha distrutto gli ultimi rifugi
della natura. Per quanto gli abitanti di questo piccolo spazio
facciano (perché devono farlo, almeno fino a quando il
progresso - secondo Flaiano - diventato vecchio e saggio,
non voterà contro o non esploderà), per quanto facciano
nel deturparlo con cemento, asfalto, nafta e plastica; per
quanto affumicassero l’area con la benzina bruciata dalle
loro auto; per quanto abbattessero alberi e cacciassero via
gli animali (più non si leva da nessun cortile tra oche e
galline il canto del gallo, sparite sono le cicale, le allodole,
le rondini, le nottole, poche sono ormai le api anche per il
succedersi rapido delle falciature meccaniche …); benché
siano spariti i tramiti delle fienagioni, i cavalletti delle
mietiture, i barconi delle trebbiature, i mucchi dello scartocciare,
i bigonci delle vendemmie; nonostante tutto questo,
ogni anno qui la primavera è ancora primavera: si vede
che ancora brilla nell’aria, e per li campi esulta . Finché
ci sarà a Pitino una primavera così, col suo potere rigeneratore
della crescente decadenza della vegetazione, io mai
seguirò il prof. Scarponi nel ventre di una città come Londra:
con tanta gente e tanto fumo, mi dicono (ma sarà vero!?)
che più di qualsiasi altro luogo dà l’idea di un inferno
notturno e nebbioso; dove e come pure a New York
traffica e ingrassa , circondato da un esercito di demòni, il
Principe delle tenebre : tra orge, grida e cadaveri, fa come
la volpe faceva in un pollaio: fa il diavolo a quattro, cioè il
suo mestiere (e gl’inglesi cacciano quella poverina, più
volte l’anno con gruppi di cani e cavalli addestrati, anziché
qualcuno dei loro diavoli). Si ripeterà che bisogna disporsi
ad essere sempre più moderni; che un Pitino così
non potrà durare; che ormai tutto e ovunque è progresso,
utilità, ecc. ecc. e che questo è inarrestabile. Già il Voltaire
diceva: il superfluo? Cosa assolutamente necessaria . E
credo che sia una delle poche cose che questo brillante
scrittore, ma uomo mediocre, abbia davvero azzeccato.
Benché la modernità appaia, infatti, come un andare contro
natura, il progresso, oggi, sembra non più un accidente
o un optional , ma una necessità ormai entrata a far parte,
per assuefazione, della nostra stessa natura; e l’avvenire,
compreso quello di questa nuova natura, pare che sia tutto
nelle mani della scienza tecnica, cioè come conoscenza
organizzata soprattutto in vista non di un futuro migliore,
ma dell’utilità intesa come comodo immediato. L’utile sta,
però, spazzando via il bello naturale e molti aspetti del
dilettevole, benché secondo quel Leopardi di cui prima si è
detto, per la cosa più importante di tutte, cioè per essere
felici, il dilettevole pare ancora più utile che l’utile . Ma,
oltre a biasimare, quindi, ingiustamente individui meritevoli
invece di elogio perché operosi e figli del proprio
tempo, a che serve, poi, recriminare contro ciò che è necessario
e inevitabile? Anche qui a Pitino, quando il vento
della modernità vi giungerà come altrove con più forza,
non ci sarà altro da fare che prendere e infilarsi il cappotto:
si dovrà venire ad ulteriori compromessi e accettare
molti altri paradossi. L’uomo non può più cambiare,
ormai, né prendere un’altra strada: può soltanto finire
male … Nemmeno io potrei più tornare a vivere dove e come
vissi quand’ero ragazzo. Perché, assuefatto al moderno,
l’effimero, l’inessenziale mi è diventato indispensabile,
primario, centrale. Solo perché so che non lo debbo
rivivere più, ora ricordo volentieri il vissuto. Ma il ricordo me
ne fa temere il ritorno.
Riflessioni sul panorama
Contemplando, con in mente tali pensieri e da quassù, lo
spettacolo offerto da un panorama di una incontaminata e
contaminata bellezza, e quindi dalla natura opera delle
mani di Dio e sovvertita in parte da quelle degli uomini, mi
sovvengono sia Aristotele col suo detto in tutte le cose della
natura c’è qualcosa di meraviglioso ; sia Dante col suo
la gloria (ma qui vorrei dire, subito e senza remore, piuttosto l’amore )
di colui che tutto muove per l’universo penetra
e risplende in una parte più e meno altrove; e poi altri
due: il colto, affascinante Petronio (la Terra gira come una
mola e fa sempre qualche malizia, di modo che gli uomini
o nascono o muoiono) e il nostro Leopardi: al suo dire che
la natura de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna .
Penso di più a quest’ultimo; e, cioè, a quanti esseri viventi
(piante, animali e persone) anche in questo medesimo ambito
spaziale che ho di fronte in questo stesso momento,
soffrono - così pensava il poeta - si uccidono, si divorano e
muoiono. Mi sovviene però ciò ch’ebbe a scrivere Plinio il
Vecchio, uno dei primi a stendere una “Storia naturale”:
Solo l’uomo alla nascita … e nessun altro animale è più
incline di lui alle lacrime, e fin dall’inizio della vita. Ma
già Virgilio aveva osservato: versano lacrime anche le cose ;
e non era, certamente, dello stesso avviso di Plinio il
nostro Leopardi, se scrisse: Non il genere umano soltanto,
ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto, ma tutti gli
altri esseri al loro modo . Non gl’individui, ma le specie, i
generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi … Non riesco,
purtroppo, a dare né torto né ragione al nostro poeta per
essere egli andato oltre la propria esperienza e la mia. Di
fronte, poi, al male del vivere penso anch’io che qualcosa
di guasto deve pur esserci stato nel meccanismo del mondo .
Non credo, però, che alla nascita per questo imperfetta
delle cose non ci sia rimedio. Se poi si parla di male, è
perché c’è pure il bene: c’è pure il dolce dov’è l’amaro; e
il male cessa di essere tale, se finisce bene: se c’è
sopravvivenza, se c’è miglior vita dopo il sepolcro. E pensando al
male incolpevole, mi ripeto: un albero che cade fa più
rumore di un bosco che cresce; e rispetto a quello colpevole
ripenso a dove si legge che Dio si pentì d’aver fatto l’uomo
libero, e che a questo volle rimediare e per questo anche
patire sotto Ponzio Pilato. Chiudo perciò gli occhi come per
non vedere e non dire con Giacomo (e contro Dante) che il
panorama è tutto un vasto ospitale ; e per non pensare che ad
operare sia un cattivo Demiurgo oppure un Dio tragico o
malvagio (perché pure in tanta universale bellezza cela - direbbe Catullo -
disegni crudeli ), quale spesso lo ritenne, per
questo conseguente gran male del viver nostro , un pensatore
mite e sofferente come il nostro Leopardi.
Mi aiuta, però, a credere da ultimo che non sia così lo
stesso nostro poeta, ché finì la sua esistenza volendo morire
da cristiano e cattolico (per cui il vivere è una genesi, cioè
una continua mutazione che l’uomo è chiamato a fare per
nascere diverso ad un’altra vita, e per cui tutta la creazione
geme e soffre con lui come nelle doglie del parto) : un gesto,
questo, che del poeta nessun leopardiano mai riferisce,
facendogli per questo un’ultima ingiuria, cioè rendendolo in
parte a tutti sconosciuto e mal noto, perché i gesti, come
quest’ultimo suo, sono sempre figli di sentimenti e pensieri
impliciti; un’ingiuria peggiore di quella fattagli subire dalla
sua ingiuriosa sepoltura. Prima di essermi informato della
sua finale cristiana tribolazione, m’era difficile non
condividere l’opinione che è funesto a chi nasce il dì natale ,
perché la vita umana, nel suo insieme, non altro pare che un
tragico gioco della pazzia: si nasce per vivere e si vive per
morire; e a differenza delle altre, la vita è una malattia da
sempre inguaribile, per cui da tutti si vive come in convalescenza
e in un lazzaretto. Ma la lezione finale del poeta fu,
possiamo pensarlo, un’ultima sua palinodia o mutazione:
funesto non è il dì natale, se funesto non è il dì del funerale.
Chi, come il Leopardi, muore assumendo il Viatico, pensa
che sta nascendo ad un’altra vita: che il suo morire non è un
finire nel nulla, ma un finire a nascere. Vivere è partorire:
partorire sé stessi ad un’altra esistenza. Convinciti - mi pare
di udire Bufalino - convinciti pure che sei destinato a durare
in un altro modo: che sei un irripetibile dio .
Per liberarmi, forse, di questo aspetto della riflessione
sul panorama, provo a distrarmi col rintracciare in esso, di
nuovo aiutato dal binocolo, la casa (quella piccola, che ha
fuori città e che vedo bene dov’è) della persona a cui, ora
più che mai, più di tutte penso e che, certo, a me lei adesso
non pensa né mai ha pensato davvero. Il suo nome, per
assonanza, spesso, come ora, mi rimanda alla sposa di
Cecina Peto: la donna più eccezionale di cui io abbia avuto notizia.
Per aiutare suo marito ad uccidersi come aveva ordinato
l’imperatore Claudio, offrendogli il coltello con cui
lei si era pugnalata per morire insieme con lui, gli disse:
« Peto, non fa male! ». Ma di quella, che sto immaginando e
cercando, non posso riferire nessuna frase per farvela ammirare:
io non riesco mai ad ascoltare e a ritenere quello
che dice, se una donna è bella. Che sottilissimo filo di consolazione,
però, e che balsamo sarebbe stato per me
riascoltare, anche solo al telefono, quel suo timbro di voce
sempre giulivo! E invece di essa niente, mai niente per me!
Ma penso pure che, non conoscendola, io me la figuro
come vorrei che sia e, forse, non è; e che perciò in lei amo
quel che vi metto io; e questo, pur cozzando con ciò che lei
è, rende vano ogni tentativo di dimenticarla. Esiste, infatti,
un secondo genere di obbietti (così scrisse il Leopardi):
quello dell’immaginazione, in cui sta tutto il bello e il
piacevole delle cose . Pure per poco che uno le sogni, anche le
donne consistono in questo. Trista è quella vita (ed è
quella dei più – aggiunse il poeta) che non vede, non ode, non
sente se non oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi,
gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. Da
sveglio, quindi, le donne non sono mai come tu le vorresti.
Ed ora provo a rivederla da qui nel solo modo che mi è
possibile: in lontananza e col solo pensiero; e non mi viene
che descriverla con parole del Manzoni e immaginarla
così: col sorriso gaio (anche se per lo più come sofferente per
passate tristezze causate da una ancor viva passione) mantenere
nell’aspetto un non so che di pacato e profondo e nel
portamento una specie di floridezza verginale, e con tutte le forme
indicare tuttora che, in altre età, c’era stata in lei quella che
propriamente ancora si chiama bellezza … Quella sua bellezza,
ad un tempo straordinaria e comune; causa di una fissazione
da “fattura” che mi ha consumato l’esistenza pur sapendo
che lei col desiderio d’un altro esisteva e non di me, costringendo
me a darsi ad un cuore di donna più bella, ma non più
amabile, anche se molto amata. Perché amor a nullo amato
[non] amar perdona (e così metto anch’io una lente dinanzi al
mio cuore) , e perché quella fortissimamente mi volle solo per
amore: ad ogni paura di abbandono prendeva l’affetto suo a
rimpastar col pianto. Anche se Gaspara Stampa - esempio infelice
del suo sesso - scrisse: odio chi m’ama, ed amo chi mi sprezza,
io non credo che sia vero il detto di Miguel de Cervantes: le
donne disdegnano chi le ama di più e amano chi più le disdegna .
Io non lo credo, questo; ma l’incredibile per alcuni può essere più
credibile del vero, se per il Leopardi tutte le donne si catturano
col disprezzo , e come il mondo, sono di chi le calpesta. (Il “calpesta”
qui, forse, è esagerato, ma assai di lieve si comprende / quanto in
femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ‘l tatto spesso
non l’accende) . Comunque già lo prevedo: forse morirò con il
pensiero d’aver commesso un errore a smettere d’insinuarmi oltre
nel mistero di quella reclusa tuttora in salute e bellezza, e che,
seppur senile, ancora non cessa di essere amabile. Al momento,
infatti, mi si fa più cara - lo sento - della stessa vita, pensando che
vorrò vivere con lei, se ci sarà un futuro.
Nel tentativo di uscir fuori dagli effetti non lieti che mi
vengono dal pensare a questa forma di sortilegio,
riguardo di nuovo il panorama, mettendomi in rapporto con
l’ambiente, e mi domando come vi sono nato e perché. E
ricomincio la solita meditazione che, però, sullo spazio ad
un tempo “schivamondo” (lo dico così, tanto per imitare
il D’Annunzio) e spettacolare di questo terrazzo
(foto 137, 138-141),
si fa più motivata e stringente. E mentre mi soffermo
su taluni particolari del paesaggio, mi domando,
con le parole di Rousseau: ma io, separato da loro e da
tutto il non-io, che sono io ? È questo introvabile io che
ricomincio a cercare pure dall’alto di questa torre. Finirò,
ancora una volta, col pensare il mio io come pensava Benedetto
Croce il suo- Come un microcosmo compendio
della storia universale-
Mentre rivolgo lo sguardo alla necropoli picena, con in
mente alcuni dei suoi reperti
(foto 124, 205, 206, 208-234),
penso a quando gli uomini un tempo, vivendo su questo colle,
consideravano il morire come una lunga notte da dormire,
per poi svegliarsi a riutilizzare, come da vivi, il loro sepolcrale
corredo, comprese le piccole lucerne di terracotta a
lungo alimentate da olio e lacrime. E mentre penso a queste
e guardo il cimitero dismesso qui sotto le mura
(foto 75),
mi torna sulle labbra prima il Foscolo: il suo rapian gli amici
una favilla al Sole / ad illuminar la sotterranea notte, / perché
gli occhi dell’uom cercan morendo / il Sole, e tutti
l’ultimo sospiro / mandano i petti alla fuggente luce ; poi Jacopone
da Todi: il quando t’alegri, omo, d’altura, pone
mente alla sepoltura; e infine Francesco d’Assisi insieme al
Carducci: tu laudato sia, Signore, per nostra corporal sorella
morte , ché ci consente la “trasfigurazione”. Questa veduta
e questi ricordi mi riportano alla mente, per contrasto, un
pensiero di Qoelet fatto proprio dal nostro Leopardi: poiché
la vita è, per tutti e per lo più, sonno, noia e dolore; e se, per
questo, più fortunati dei vivi sono quelli già morti, e più felice
degli uni e degli altri è chi ancora non è e non sarà, allora
il giorno della morte è preferibile a quello della vita . E
così penso a quando e come anch’io sarò: solo, nella quiete
solenne della fine, con in viso un abbandono più forte del
sonno , come un santo disteso nell’urna sotto gli altari, non
pianto da nessuno, forse a causa di quel sortilegio. Ma penso
che non finirò nel nulla: meno che altrove qui mi riesce
pensare il non-essere; né, e tanto meno, che possa finire nel
nulla - Dio ne guardi - quella straordinaria idea e cosa che
ancora mi sta nella mente: quella mia cara affezione. Non
finiremo - mi dico - e per questo anch’io - come Michelangelo -
pur sbigottito e confuso, porto invidia a’ morti . Perché
i morti - e penso a Dante - son germi destinati a formar
l’angelica farfalla : morendo, si finisce di generare, di dare
alla luce, di partorire sé stessi ad una nuova esistenza. È
ripensando a quella bellezza senile che ora mi figuro di nuovo
il futuro come un sopravvivere in un luogo dove un giorno
si potrà menare, con chi si vuole, una vita felice.
Ritengo, infatti, che la finalità ultima di questo immane
congegno dell’universo non è far nascere, crescere, deperire
e poi finire nel nulla ognuno di noi, ma di rendere l’
uomo partecipe della vita personale di Dio (parola che ora
non mi suscita più imbarazzo né avversione alcuna) dopo
una faticosa e a volte tribolata trasformazione, che lo rende
capace di essere divino: capax Dei come dicevano i teologi
del passato; in grado, cioè, di fare spontaneamente tutto
ciò che la legge dell’amore consente, desidera e vuole.
Non è affatto verosimile che il fine, lo scopo di tutto
questo lavoro del cosmo, per l’essere pensante che, considerando
le ere geologiche, vi sta nascendo come da stamattina
all’alba, sia il nulla, il non-essere più; quasi che chi ci
ha fatto nascere lo abbia fatto al solo scopo di farci morire.
Che la morte fisica sia uguale al nulla si può dire come
qualsiasi altra cosa, ma non si può logicamente pensare né
credere, se si tiene conto del dato oggettivo, vale a dire di
come il nostro universo è, e della sua storia. Di fronte allo
spettacolo che vedo, è di una evidenza per me ora eclatante
e certa credere che nell’universo, interamente fatto di luce
e di informazione , tutto sia stato pensato, perché tutto è per
noi intelligibile , come era solito ripetere Albert Einstein.
Questo straordinario rapporto fisico, che sento su questa
torre tra il mio “io” e tutto il “non-io” del panorama che
ora mi circonda, mi porta a riconsiderare il duplice e
fondamentale problema dell’esistenza universale e individuale
nei termini noti sul finire di questo XX o secolo. Il problema
è da un lato il rapporto che c’è tra il pensiero e la materia
giunta ad essere il panorama che mi comprende; e,
dall’altro, tra l’origine della luce e l’informazione, e quindi
dell’io come fase/corollario dell’evoluzione terrestre.
La riflessione parte da questo dato d’immediata
esperienza: il mio cervello ora pensa; e, se pensa, è la materia
del mio cervello a pensare (la materia, cioè, più recente,
più evoluta e complessa di tutto il “non-io” del panorama);
e, quindi sono propenso, come al solito, a ripetere che il
mio cervello produce il pensiero come il fegato produce la
bile. E, se la materia pensa e sente - così scriveva anche il
più forte pensatore delle Marche, il nostro Leopardi, che
ora cito a memoria - allora “non si dovrebbero ammettere
più cose di quelle necessarie a spiegarle”: nulla è necessario
porre al di fuori e prima della materia . La materia, insomma,
pare che sia primaria, autosufficiente, eterna: che
nulla di spirituale occorra porre al di fuori di essa. Ma subito
mi viene da dirmi che non è così: l’universo (di cui,
per quanto si sa, noi siamo la fase più evoluta) ha avuto
inizio (e questo il nostro poeta non lo pensava né lo poteva
sapere con certezza) e all’inizio non era pensante; e la parte
del reale, che mi sta davanti e che non pensa, esiste prima
dell’uomo che la pensa. Ma, allora - se non è del tutto
errato ciò che oggi si sa - come mai soltanto ora e in lui la
materia pensa? Mi rispondo rimeditando di nuovo come
segue la mia spiegazione.
Ciò che considero tale ed in parte contraria a quanto si è
ritenuto finora, è che noi, in sul finire del XX o secolo dell’
era cristiana, stiamo scoprendo la nozione di “informazione”;
una nozione ch’era già stata intuita da Aristotele ventiquattro
secoli prima della nostra generazione. E l’informazione
è il dare una forma comunicando un messaggio,
cioè un modo di essere dato, ad esempio, alla luce per farla
diventare qualcosa: questo panorama che mi sta dinnanzi,
questo mio cervello che lo pensa, ovvero tutto ciò che ora
per l’universo intero si squaderna.
Dico, come parlando a me stesso, che la maggiore novità,
dal punto di vista scientifico, è questa: la materia, che
ora in me pensa, non ha sempre pensato; si sa che prima di
essere cerebrale non era pensante; e sono occorsi, forse,
circa 15 miliardi di anni-luce ed una sterminata catena evolutiva
di esseri viventi perché, alla fine e soltanto adesso,
riuscisse a pensare. Come? perché adesso e in me?
Questa riflessione mi accompagna mentre mi soffermo a
cercare, sullo sfondo verdecupo dietro Colleluce, le finestre
del palazzo della Fondazione Claudi a Serrapetrona.
Ripenso a ciò che di straordinario esso contiene: l’eccezionale
informazione paleontologica della collezione Récchi,
volta a raccontare dell’evoluzione le fasi della tendenza
al volo, l’aspirazione al cielo, la propensione naturale ad
uno stato “angelico” anteriore a quello umano e ad un altro
supposto possibile e successivo a questo. Uno stato, il nostro
attuale, anch’esso pensato ora da molti come ulteriormente
evolutivo, perché reso congetturabile da quegli strumenti
(laser, microscopi, computer superpotenti) che ci
fanno vedere, a livello subatomico e con gli occhi della
mente, lo strano strato “quantistico ”: il nòcciolo dell’universo
in evoluzione, benché non si sa cosa diventi perché,
osservandolo, muta. Questo, però, è già motivo sufficiente
per supporre possibile una ulteriore evoluzione (il mondo
dell’angelica farfalla dantesca: dove sono gli angeli e i santi),
anche se non ci è dato dire cosa sia, perché non ancora
vista dal sapere scientifico attuale. Con essa gli scienziati
di oggi fanno come io faccio con la luna, quando la dico
mezza solo perché i miei occhi non la vedono intera.
La riflessione sfocia nel pensiero che segue.
Da tutti ora è dato per certo che, col fiat lux o big bang che
dir si voglia, la luce è la prima forma, preatomica e “concreta”,
di energia che sia apparsa orsono circa venti miliardi
di annate. E ciò che noi chiamiamo materia è, insomma,
della luce composta, ovvero composizioni fatte con la luce,
anche se noi, non sapendo che cos’è la luce, non sappiamo
nemmeno che cos’è la materia. Ma se la materia, qualunque
cosa essa sia, è composizione di luce, il componente o
compositore non può essere fin dall’origine e a sua volta
dell’ordine della luce e quindi della materia. Qualunque
cosa sia, il componente è qualcosa di ordine diverso: è, diciamo
per convenzione, dell’ordine del pensiero. Perché
dalla materia senza pensiero, e cioè senza un “quid” che
faccia pensare la materia cerebrale, non si può far scaturire
il pensiero, come dal nulla non si può far sorgere l’essere.
Il pensiero, come agente dell’informazione necessaria alla
composizione della luce da cui tutto proviene, non può
cominciare a partire dall’assenza di pensiero. Ciò significa
che il pensiero è primario: non è il cervello (e quindi la
materia) a produrre il pensiero come il fegato la bile, ma è
il contrario ch’è vero: è un Pensiero, col suo dare l’ informazione ,
a produrre il cervello che pensa. E se io ora esisto,
non è perché penso, come diceva Cartesio, ma perché
sono pensato. Occorre dire: «Un qualche essere è necessariamente
primario: non può, cioè, aver cominciato; e questo
essere è Pensiero». Perché torno a ripetermi che da una
“rivelazione” o intuizione prima e ora dalla scienza sappiamo
che la luce e quindi la materia, quella che noi conosciamo,
ha avuto inizio e che, “da brodo primordiale”, non
era fin dall’inizio pensante. Che genio questo brodo! Ché
senza cervello ha saputo darsi un cervello che lo pensa e
dice: «Nessuno diventa da sé ciò che non è, perché nessuno
si dà ciò che non ha».
La vera questione ora è di sapere come il Pensiero primario,
il Pensiero “creatore”, abbia potuto dare inizio alla
luce, che è altra cosa dal Pensiero, e quale informazione ne
darà in futuro. Ma qui la riflessione si arena all’obiezione
del Vico: perché Iddio egli il fece (fa e farà), esso solo ha
la scienza di questo mondo naturale . Poiché da questa terrazza
mi rendo maggiormente conto che la realtà è assai
più vasta del cervello che la pensa, mi domando con Dante:
Or tu che se’ che vuo’ giudicar con la veduta corta d’
una spanna? E considero, poi, la consapevolezza della mia
corta veduta una forma di conoscenza come non fanno i
più: scettici ed agnostici. I quali, oltre a dimenticare che
abbiamo conoscenze certe (e molte sono quelle che non
abbiamo imparato), ignorano, benché colti e istruiti, che si
sa bene solo quando si sa su poco e non si dubita. Perché,
senza fede (come conoscenza rivelata) e su ciò che conta,
con il sapere cresce il dubbio ed oggi siamo tutti impregnati
d’ignoto: non c’è più fra noi chi sappia qualcosa .
Così direbbero Goethe e il Salmista. Se però ci fu e c’è
gente come il dottor Fiore, che - si sa - non è una donnetta,
e dice che la scienza non sa definire, ma che qualcosa c’è
oltre le cose che vede, allora io mi permetto di aggiungere
che una buona volta sapremo e vedremo che cos’è: lo vedremo,
se non prima, all’uscita dall’universo a noi noto,
quando - come tutti quelli prima di noi - sopravvissuti nell’
essenziale, prenderemo una rotta verso un mondo ora a noi
del tutto sconosciuto.
Mi rendo conto della superficialità di quello che mi viene
in mente. Tuttavia ritengo ragionevole pensare che la
storia, ossia l’evoluzione di ciò che ha avuto inizio, cioè
questo nostro universo, sia guidata da una Intelligenza paragonabile
ad un pensiero immanente o idea direttrice; e
che si sviluppi e tenda verso una sua finalità, un compimento
tale che, se pur resta un mistero, non è, però, pensabile
che sia il nulla. Come, quindi, sarà il futuro noi non lo
sappiamo prima di farne esperienza; e l’esperienza, la realtà,
è sempre sorprendente. Sappiamo, però, che l’universo
non sarà né come quello passato né come quello presente.
Esso è come noi, che siamo quello che siamo e non quello
che siamo stati, e domani saremo altro . Perché esso è un
sistema nel quale l’avvenire è sempre più ricco del passato:
c’è più nell’avvenire che nel passato. Anche se, dopo tutto
- come spesso diceva quel buon uomo di Ernesto Renan -
può essere che la verità (vale a dire ciò che avverrà) sia
triste , non è, però, ragionevole pensare ad un fallimento
totale: che ad una vita disgraziata quella Intelligenza (che
presumo di Dio) faccia di sua volontà seguire, ad esempio,
una dannazione eterna, per quanto colpevole possa essere
la vita vissuta. Dopo tutto, la fine di ognuno è - così penso
anche io come Qoèlet e Pindaro - nelle mani di Dio . E Dio
è Dio perché è buono (e perdonare alle sue creature - non
sia irriverente pensarlo - credo che sia un suo preciso dovere:
il cielo è in obbligo d’aiutarci, perché al mondo non ci siamo
messi noi di nostro capriccio né fatti da noi così come siamo).
Sarà quel che sarà - mi dico - ma io non reputo che, se
Dio c’è, dopo una vita tribolata ce ne sia un’altra che ci aspetta
con ben altri guai. Se Dio c’è, nemmeno Lui, l’Onnipotente
può rinnegare sé stesso : non essere buono, non perdonare
a chi chiede perdono, non essere Dio.
Mi accorgo che, nel guardare e riguardare il già visto da
questa torre, e tra il ricordare e il meditare che vi sto facendo,
molto tempo è passato (pur trattandosi di ore). Rimetto il binocolo
sopra il parapetto, mentre osservo la sagoma turchina del
Sanvicino che, fermo e possente, incomincia ad imbrunire, orlandosi
poi di porpora
(foto 135).
Seguendo però il Sole nel suo tramontare, penso e gli dico:
«Tu appari sempre uguale, sempre lo stesso quando ogni volta
sorgi da quella parte di mare prima di Numana e poi quando
cali così dietro i dintorni del Sanvicino. Invece, ad ogni tramonto
sei meno grande e meno potente che ad ogni aurora: risplendendo
e girando in questo arco di cielo ti consumi e invecchi.
È per questo tuo consumarti che noi siamo certi che
anche tu hai avuto inizio e che finirai, se non cambia
programma chi ti ha fatto esistere. In realtà, trasformando in
maniera costante e irreversibile quattro atomi del tuo idrogeno in
uno di elio, tu bruci in ogni secondo parecchie centinaia di
milioni di tonnellate di idrogeno e liberi così una quantità di
energia (i “quanti” di luce che chiamiamo fotoni) equivalente a
quella di parecchi miliardi di bombe H. È da molto, d’assai
molte annate che giri e risplendi così. Quando avrai finito di
trasformare il tuo stock d’idrogeno in elio, diventerai anche tu
una stella gigante rossa; ed esploderai per diventare un residuo
pesantissimo di materia ferrosa e degenere: una “nana” bianca,
una stella morta, come ce ne sono già tante nella nostra galassia.
Allora tutto il sistema solare (l’insieme di pianeti e satelliti)
sarà sconvolto e sparirà, quando già da tempo saranno spariti
ogni panorama e tutti gli individui capaci di pensarti come me,
che adesso penso pure ad una fine più sconvolgente della tua:
essendo ogni galassia e quindi l’universo tutto fatto di stelle
come te, noi siamo certi che anch’esso ha avuto inizio e che,
prima o poi, finirà in un buco nero. Ecco perché fu ci fu detto
e riferito che i cieli e la Terra passeranno: che gli elementi
incendiati con fragore dal calore del sole si dissolveranno .
Chissà, se prima che tu finisca d’inviarci i tuoi ultimi
fotoni, qualcuno tra gli scienziati sarà riuscito a sapere e a
dirci con certezza quello che ci dice la fede: il motivo del
tuo esistere e quindi lo scopo di questo nostro universo. Ma
già più d’uno comincia a capire che tutto accade come se
l’universo, dove tu agisci, sia stato fin dall’inizio fisicamente
preordinato allo scopo di far nascere un essere capace di
pensarti, com’io ora fo da questa torre ».
Osservandolo già nella penombra, il monte Sanvicino
pare che si chini e si “proni” (mi si perdoni l’invenzione o
l’uso di questo verbo) per abbracciare, contenere e proteggere,
come da una qualche immane minaccia proveniente
da me che lo guardo
(foto 133),
tutte le alture che lo circondano.
E questo perché dopo quell’affermazione del Vico,
me ne viene in mente una del riottoso Galilei: i pensieri
nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile e non sopra
un mondo di carta . Ciò che si ha in potere di conoscere
è scritto in ogni germe, in ogni nucleo, in ogni molecola
di questo grandissimo libro che mi sta innanzi ... Il progresso
nella conoscenza delle informazioni che il panorama
contiene permette in parte di conoscere l’universo e di
dominarlo. È, nondimeno, dalla minaccia di questo dominio,
dall’ordigno di tale conoscenza, dal mio cervello che
il Sanvicino pare a me che voglia proteggere, quasi
abbracciandole, le creature che gli stanno attorno
(foto 134).
Inevitabile mi si fa il pensare che abbia un serio motivo la
proibizione biblica: quella di non mangiare dell’albero della
conoscenza per non rischiare, forse, di compromettere
l’armonia del creato e di poterne morire.
Il mio io si rifiuta, qui, di meditare oltre; cessa di ricordare,
e si figura quello che non vede, ma ch’esiste già o
che potrebbe esistere. Al di là di quell’orizzonte che inizia
a bruciare dietro il Sanvicino
(foto 136),
chiudendo gli occhi io m’immagino di valicare altre successive catene di monti:
monti boscosi, poi rocciosi e infine azzurri prima che
innevati; e di superare, oltre a quelli, infinite distese di sabbie
e di acque, e pianure simili ad un mare che giace senza
onde e come ghiacciato, per finire nell’oscurità più nera,
all’improvviso seguita dal vorticoso esplodere di ammassi
di stelle accecanti prima d’essere spenti dal sopravvenire
di una nuova assoluta mancanza di luce. Spaventato e sgomento
allora io mi arretro da quel disumano e profondissimo
abisso immaginato senza fondo, ma di cui la conoscenza
ha superato l’immaginazione.
Riaprendo gli occhi, mi torna allora dolcissimo il rivedere la
luce e la quiete di quel rosso crepuscolare del Sanvicino, che,
con quel suo stare sempre immobile e allo stesso modo, mi dà
l’idea di ciò che dell’aspro vorticoso infinito andar delle cose è
saldo e permane: l’idea, cioè, dell’essere come certezza e verità.
Idea che, però, subito ritorna ad essere offuscata dal timore
e dalla consapevolezza della sconvolgente mutazione, avvenuta
nel secolo passato, nel rapporto tra l’ambiente e il soggetto
pensante: di nuovo tra il Sanvicino e il mio cervello, per aver
questo acquisito, ora assai più di prima, la consapevolezza delle
sue enormi capacità: gli sarà d’avanzo un chicco di materia
per disintegrare tutta la mole di quella montagna: in un granello
di polvere ci sono miliardi di miliardi di protoni, neutroni ed
elettroni, che si possono sconvolgere. Dopo la conoscenza e la
rottura di quel minimissimo grumo di luce che si chiama atomo,
la stabilità del Sanvicino - così torno a pensare - può essere
stravolta; e tutta la sua massa fatta sparire dal congegno che
ho nella testa; e che, quindi, sembra essere la realtà più solida,
perché capace di sconvolgere ogni realtà, compresa quella
stessa che mi fa pensare. Perché, dopo la conoscenza e la
manipolazione che si può fare di ogni embrione, il cervello del
soggetto pensante potrà, infatti, subire una mutazione tale da
diventare non si sa che cosa. L’ambiente che ho davanti insieme
a tutto ciò che contiene, so che sono diventati entrambi
mortali per opera di questo congegno, ad un tempo fragilissimo
e immane, perché da esso sono stati fatti arrivare al bivio
tra l’essere e la sua dissoluzione assimilabile al nulla.
Tutto ciò che fino a ieri non sembrava mortale, con la
bomba atomica lo è diventato. Perché un genio impazzito,
nato dalla manipolazione genetica, prima o poi la tirerà,
anche se nessuno lo potrà ricordare, stante che l’era di quel
pazzo - era che è già cominciata - sarà l’ultima era del
mondo che è nostro. Considero poco probabile, quindi, che
questo nostro globo arrivi a finire, insieme ad altri, bruciato
dall’esplosione o implosione del Sole; o per il lento spegnersi
di questa stella: che, fattosi notte in tutto il sistema
solare, la Terra e gli altri pianeti continueranno a girare
come altrettanti teschi nel vuoto, cioè nell’oscurità più
nera, contenuti da dischi sconfinati di ghiaccio. Penso al dies
irae … al solvet saeculum in favilla: a David e alla Sibilla.
E ripenso anche (ma senza condividerne più, su questo, il
pensiero) a Leopardi: all’arcano mirabile e spaventoso
dell’esistenza universale , che prima di essere inteso, si dileguerà
e perderassi… in un silenzio nudo, in una quiete
altissima, in uno spazio immenso. Ma sarà così anche per
l’esistenza del nostro mondo sublunare? Perché ? come si è
detto ? quella invenzione dell’ esplosivo incomparabile , prevista
da Italo Svevo, è già avvenuta; ed un uomo fatto come tutti
gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo;
e, contro il volere impotente di ogni Prometeo sano di
mente, lo farà esplodere, può darsi, in una delle profondità della
Terra. Ci sarà un’esplosione enorme, che nessuno vedrà; e
la Terra ritornata alla forma, forse, di nebulosa, errerà nei
cieli priva, per anni ed anni-luce, di qualsiasi forma di vita.
È triste, ma inevitabile, pensarlo: quell’uomo un po’ più
ammalato di tutti gli altri, se non è figlio di Adamo, lo è di
quel “brodo iniziale” rimescolato dal bastone di quel Caso
antico , che - come scrive il Nietzsche con infinita
delicatezza - eternamente cucina e divora i propri escrementi. (Cfr.:
Aus dem Nachlass – ed. Karl Schlechta, III, p. 703).
Riconsidero ciò che ho pensato, e mi auguro d’essermi
perso nei labirinti del mio ragionare. Faccio un giro su me
stesso e riosservo l’intero panorama: ampio e ancora luminoso.
E nel guardarlo penso a quanto sia poca cosa rispetto
a tutta la superficie della Terra e quanto questa lo sia rispetto
a tutto il sistema solare. Ricordo Paul Davies dire in
“Sull’orlo dell’infinito” che la Terra è decisamente insignificante
nell’immensità del cosmo. Ma, pur nella sua immensa
piccolezza, mi viene da pensare che essa non si può
dire insignificante fino a quando non si saprà che
nell’immensità del cosmo esistono tant’altre Terre come la nostra:
abitate da esseri simili a noi o più evoluti; e dove è accaduto
che il Creatore (quel Pensiero, quell’Intelligenza iniziale)
si è fatto come uno di loro. «Che cosa sono io,
terrestre? che valgo?» mi domando «perché il Creatore se ne
curi tanto da farsi pure uomo e morire in modo orribile per
un terrestre come me». Pensiero sconvolgente, tutt’altro che
insignificante , se vero o credibile.
Da esso viene a distrarmi il ricordo improvviso di quell’
ombra d’uomo che mi ha accompagnato nel salire e che mi
preparo a rivedere nel discendere. Penso a lui: a che cosa
avrà pensato e penato nello stare quassù da solo; con la
palma della mano sopra gli occhi per intere giornate, per mesi e
mesi, tra le mura di questo terrazzo, senza mai poterlo
abbandonare (se non nelle notti gravide di nebbia), quando non si
riesce a vedere nulla, nemmeno le proprie mani) né smettere
di calpestarlo in ogni verso come un animale catturato e
messo dentro una gabbia di ferro appesa ad un’alta muraglia; e lì
sempre aspettando qualcosa che turbi la quiete che c’è intorno,
ma non in lui. Per quanto lì isolato e inerte, pure
nell’animo suo s’agita una potenza che mai è tranquilla.
Quante aurore avrà atteso nascere dall’alba marina e visto
esplodere la luce del sole sull’acque e scacciare la notte
dalla riviera su per i luoghi che lui deve scrutare: su per le
balze, i poggi e i valloncelli, i colli, i paesi, i borghi, i casali,
le strade e gli stradelli; verso i boschi che si prolungano
fin sotto le vette delle prime montagne (sempre le stesse, le
sole cose rimaste identiche) per segnalare le prime avvisaglie
di movimenti sospetti.
Quanti tramonti avrà aspettato osservando il trascorrere
e l’accavallarsi giocoso delle nubi; e quanti crepuscoli avrà
visto incendiare le cime dei monti e poi imbrunire la marina
e i fondivalle prima che tutto venisse di nuovo inghiottito
dal buio! E pure quante notti avrà vegliate, guardando in
piedi il vagar della luna e lo sfavillar delle stelle per non
addormentarsi e per far dormire giù sotto tranquillo il suo
padrone, spaventato, più che dalle razzie piratesche o dalle
bande di saccheggiatori e criminali, dalle armate dei Sanseverinati,
talora dei Tolentinati o dei Montecchiesi, se non
dei Camerti e Cingolani, quando non di tutti costoro insieme.
Da lui, o da altri per lui, gli sarà stato più volte urlato
dal basso
(foto 137),
per saperlo sveglio e se in allerta:
«Sentinella, che tu vedi lassù!?». E bisognava affacciarsi e
rispondere per far cessare, in entrambi, il terrore degli assalti
e degli agguati non visti… Se non segnalati con grida
a quelli di sotto e poi ad altri lontani con fuochi o fiaccole,
sarebbe stato meglio per lui buttarsi giù dalla guardiola nel
vuoto, anziché tentare, come una talpa, di uscir vivo dai
cunicoli sotterranei di questa torre
(foto 66 - 69).
***
Oltre il panorama
L’altitudine, nel silenzio del piccolo spazio tra queste
mura, procura, nonostante la mestizia di quest’ultimo pensiero,
una solitudine tranquilla, pacata, aperta - com’è - su
clivi, greppi, paesi e città; e non eccitante, vertiginosa, da
spaurire come quella che, sull’imbrunire, prende dalle alture
dei Sibilini; né conturbante al pari dell’altra che ci viene
ascoltando di notte la voce oscura del mare sulla riviera
adriatica. Per effetto in me di una sopravvenente sordità
senile, il silenzio della solitudine è rotto, anche quassù, da
quel continuo brusio che ho nelle orecchie: quel rumore
come di un sottofondo crepuscolare un po’ ruvido e nascosto,
ma fievole e sonoro insieme; e che subito sembra stare
come a due passi, ma che, poi, pare invece che arrivi da
una profondità senza confine né fondo, e come un affievolito
fragore di un che di forza e di lavoro calmo ed immane.
Che sia, mi dico, il radiobrusio prodotto dall’agitazione
termica degli elettroni che ogni corpo contiene? Allora
quassù penso - e mi pare di sentirlo - che l’universo è
in moto ed agisce anche qui sotto. E ripenso a Petronio: alla
Terra che gira come una mola per far nascere gli uomini
e fargli rivivere, morendo e altrove, un’altra vita.
Per riposare un poco i miei piedi più che il cervello, mi
stendo sul pavimento, spalle e capo appoggiati al muro; le
mani sulle ginocchia; gli occhi verso l’alto. Nemmeno una
bava si avverte di brezza marina. Sparito il paesaggio, la
solitudine e il silenzio diventano astrali, ultraterreni, assoluti.
Su questo immobile terrazzo di pietra mi sento solo
come non mai e con sopra soltanto il tratto d’un cielo di
perla; più solo qui mi figuro che in una zattera ferma nel
mezzo del mare. Adesso, non rapportandomi più a
nessunissima cosa ma soltanto al nulla e al destino, temo di
dover subire l’aspetto meno gradito della mente: quello oscuro
che mi prende quando resto solo e penso di non poter
essere rassicurato né soddisfatto da alcuna cosa terrena.
Mi par di sentire Leopardi: Tien - questa vetta - altissima
quiete; /… nulla si crolla al vento, /… né voce o moto / da
presso né da lunge odi né vedi ... Ond’io quasi me stesso e il
mondo oblio sedendo immoto; e già mi par che sciolte /
giaccian le membra mie, né spirto o senso / più le commuova,
e lor quiete antica / co’ silenzi del loco si confonda.
Ma, pur divenuto così immemore e solo (e star soli è
necessario - lo diceva Angelus Silesius - quando non si è del
volgo ) mi sorprende il venirmi in mente prima Paolo di Tarso
che scrisse ai Corinzi: lo Spirito di Dio abita in voi ; e poi
questo ammonimento di Epitteto: … ricordate di non dire
mai che siete soli; infatti non lo siete: dentro di voi c’è Dio
col vostro spirito . Pensando a questo aspetto divino in me,
richiudo gli occhi e immagino che il piccolo spazio di questo
terrazzo
(foto 139, 141)
cominci a girare attorno a sé stesso; e
poi, con me dentro, attorno alla Terra; e dopo, con essa e come
realmente avviene, attorno al Sole; e infine, con tutto il
sistema solare, attorno al centro della nostra galassia; e con
questa allontanarsi, a velocità radiale e come cantando, da
tutte le altre galassie per andare, con altri ammassi stellari,
come ai confini di un universo che non mostra di avere né
inizio né fine. Un viaggio fatto col solo pensiero, che va più
veloce assai della luce, più di ogni cosa pensabile rapida, non
essendo condizionato né dallo spazio né dal tempo. E allora
mi domando se esso non sia in me, pur piccolo e da poco
come sono, un infinitesimo frammento di ciò che è proprio di
Dio, come pensava e fa ancora pensare Epitteto. E mi
domando anche se non sia, per questo, vero quello che si legge
nella Sapienza : che Dio ha creato l’uomo secondo la natura
divina; e che questa natura, essendo in parte già dentro di noi,
fa sì che, anche morendo, noi non si muoia del tutto, ma che
in qualche maniera si sopravviva nella nostra essenza.
Mi prendo di nuovo il capo tra le mani dicendomi di esso:
è un piccolo mondo, ma un abisso senza fine; e ti gira
la testa, se ci guardi dentro. Mi domando come in me esso
faccia a pensare; che meccanismo c’è dentro capace, piccolo
e immane com’è, di produrre o, forse solo, di trasmettere
il pensiero: un che di intangibile, invisibile, inudibile,
che non si può dire e non è una cosa, benché prodotto in un
meccanismo che pensa perché a sua volta pensato e che sta
funzionando tra le mie mani ed è capace, partendo da un
punto come il piccolo spazio di questo terrazzo, di mettersi
in ogni luogo al centro di tutto l’universo pensandolo; e
pur immaginandolo infinito, sentire che l’animo nostro, il
desiderio nostro è ancora più grande che sì fatto universo .
Dopo questa rapida riflessione, in un batter d’occhi ritorno
in me stesso. Disteso su questo punto infinitamente piccolo,
tenendomi ancora la testa tra le mani e guardandomi
dal mento in giù, mi elimino via via tutto di me, dai piedi
alle spalle senza cessare di essere io; e pur ridotto solo a
quello che tengo tra le mani, mi dico: «Sento che potrei fare
a meno di tutto il resto che mi costituisce, ed esistere
ugualmente al di fuori di esso, perché l’essere essenziale del
mio io consiste in questa parte di me che pensa. Ed è questo
che sento funzionarmi in testa, in questo capolavoro della
creazione, che dovrebbe, perché può fare a meno di tutto il
resto, farmi sperare e dire: questo, che tengo tra le mani,
contiene o è soggetto o connesso o è fatto da qualcosa che
mi fa pensare e che forse non finirà con la dissoluzione del
meccanismo che lo contiene e che ora fa funzionare, anche
se tutto il resto di me, come accade, è destinato a non rinnovarsi
più e a dissolversi e svanire».
Penso, in fine, che nemmeno questo mio pensare è
l’essere necessario, perché non è da sempre esistito e
potrebbe non esistere più. Perciò, rifletti bene - mi dico - e ti
giovi ammettere che, presente o no in te, non può non esserci,
anzi, che c’è necessariamente un essere distinto da te, e
che non può essere pensato se non sempre esistente, dato
che hai conoscenza e in te esperienza di ciò che ha origine,
che si sviluppa e che via via cessa di esistere come appare
che sia.
Mi viene, quindi, spontaneo riconsiderare che per fare
questo congegno in cui consiste il mio io che pensa (un
congegno composto all’incirca di cento o duecento miliardi
di neuroni con migliaia di interconnessioni per ogni
neurone), sono stati necessari - lo dicono ora quasi tutti gli
scienziati - poco meno di venti miliardi di annate: tutta la
storia dell’universo che si conosce è stata necessaria per
riuscire a far sì ch’esista quest’oggetto unico, di gran lunga
il più complesso a noi noto e che ora si pensa su quest’
ermo terrazzo e che sono io stesso: una creatura piccolissima
e fragilissima, ma pure in grado d’intimorire, col
congegno che ha in testa, tutte le altre che ha dattorno, che
lo contengono e che possono, che potrebbero disintegrarlo
in un gran numero di modi già noti o in chi sa quant’altri
ancora sconosciuti.
Ed aggiungo che è proprio questo mio stare di fronte allo
spettacolo del panorama (dove però nulla e nessuno c’è,
cui possa dire: roccia, tu m’hai messo al mondo; bosco, tu
sei mio padre; pio bove, tu mi fai pensare) – è questo panorama
a farmi convinto che io non sono frutto neppure
del Caso antico (di quel cadere a casaccio e ab aeterno che
fanno atomi su atomi, alcuni dei quali a causa di un certo
clinamen commettono errori di ricaduta o di copia, uno
dei quali avrebbe dato origine al sottoscritto!); né frutto di
quella divinità tutelare femminile poi detta dal Darwin selezione
naturale . Una dea, questa, che ora i più giovani
scienziati (alcuni, però, già premio Nobel ) considerano
materia adatta per fare ironia , e non per spiegare il ripetersi
dell’infinita varietà di minerali, vegetali, animali e
uomini che questo panorama contiene.
Come può esistere il caso, se esiste la scienza? Bisogna
o no - mi dico - credere ad Einstein? Che “uno Spirito si
realizza in quelle che noi chiamiamo leggi della natura”?
Come può il ripetersi esatto, sia pure in modo a volte evolutivo,
di tutte le forme di vita essere frutto del caso e non
di un Pensiero originario, che così le ha pensate e le vuole?
Mi sento, quindi, di riaffermare a me stesso e concludere
che primaria è l’informazione, e dunque un Pensiero
che ha creato e fa funzionare questo cervello che lo sta
pensando, e che tengo ancora tra le mani. Niente (né spazio
né tempo né materia) c’era - mi ripeto - “prima” del big
bang; niente, se non il Pensiero che ha messo tutte le informazioni in
quella esplosione di luce, perché diventasse
l’intero universo e questo panorama che mi sta davanti,
compreso l’io che ancora lo contempla da questa torre.
Se nella mia già avanzata vecchiaia, quando, gettate ormai
dietro le spalle le molte fatiche e le poche distrazioni
della vita; se durante il giorno, benché sempre in preda alla
noia perché dell’universo tutto sembra insufficiente o poco
o piccino o nullo per l’animo nostro e il nostro pensiero;
se mi accorgo di non avere avuto nessuno di questi pensieri
per la testa, mi viene di dire a me stesso: «Tu non sei
stato oggi uomo vivo in nessun momento: sei andato tutto
il giorno in giro con un cervello di cadavere nel capo». E
così penso di nuovo a Pascal: all’uomo irragionevole e futile,
a quello che ha in testa uno strumento per conoscere
l’universo, ma che, invece, per la maggior parte del tempo
lo impegna ancora per vivere tanto stupidamente la vita:
per incretinirsi coi funghi o le ideologie di partito, per catturare
una lepre, o per tirare meglio di un altro una palla
contro una rete (un nulla assoluto), ovvero per solleticare,
con lepido sussurro e grattando (quando si ha fortuna!) un
qualche chitarrino, più le orecchie che il cervello dei più.
È questa riflessione che subito mi spinge a ripensare e a
credere che, oltre quella luce che nel tramontare brucia
dietro il Sanvicino
(foto 136),
prima del brillare delle prime
stelle, prima degli astri da me più remoti e quindi più antichi,
ci sia stato e ci sia un Pensiero che, informandola,
dandogli cioè un’idea direttrice, faccia esistere e brillare
ovunque ogni forma di luce. Dopo l’ultimo orizzonte che
vedo, e oltre a quello che ho già immaginato, penso,
insomma, a qualcosa che per forza ha da esserci, altrimenti
non mi spiegherei questa mia ansia arcana, questo desiderio
che prende anche a me (e non mi vuol lasciare!), come
prendeva (mi sbaglio?) a Pirandello; e che mi fa, come a
lui, rimirar le stelle e sperar di vivere in un altro mondo
un’altra vita, diversa e migliore di quella attuale, che ogni
giorno di più avverto che sta per finire: con Vittoria Colonna,
d’altro ormai certo non so che di morire. Ricordo e
penso: i cieli e la terra passeranno (Gesù di Nazareth) …
passerà la scena di questo mondo (Paolo di Tarso). E questo
sentire la fine rende anche a me indubitabile che, in
questa vita, non ci sia altro maggior bene che la speranza
di un’altra vita (frase non mia, ma ora non ricordo di chi).
Anche quando non ci si crede, sempre si spera che di noi
non sparirà quell’ informazione o idea direttrice che ci ha
fatto e ci fa esistere, mutare e sopravvivere al nostro morire,
come fanno supporre esperienze di “premorte” o rianimazione
segnalate in tutto il mondo.
Senza questa speranza, alimentata da una frequente
riflessione sulla verità o meno di un’avvenuta trasfigurazione
e poi risurrezione (notizia che, per essere la più straordinaria
che ci abbia raggiunti, è irragionevole non prendere
mai in seria considerazione e fare come chi è cieco: avere
gli occhi aperti e non guardare) – senza questa speranza la
morte mi ritorna anche qui orribile solo a pensarla. E questo
ora mi capita sempre più spesso. Perché in vecchiaia,
se non si ha la mente completamente ottusa, vivere è - come
diceva Montaigne - filosofare, cioè imparare a morire,
ricordando, anche senza volerlo, che dietro a tutto c’è stato
sempre il memento mori e pensando, più del solito, a quel
che potrà capitare alla frontiera. Ma sento che anche questo
tipo di vivere sta venendo meno, perché è già iniziato il
preparasi alla fine. Come? Pregando. E perché mai? Per
avere un colloquio nel voler dare un senso al non-senso
della vita e per superare l’angoscia della solitudine. E poi
perché la preghiera , anche se non guarisce malattie come
la vecchiaia tranne che raramente e per poco, è guarigione :
non dà salute, è salute. E per questo penso a Benedetto
Croce, che considerò la preghiera come suprema via di
scampo nella disperazione. Frase, questa, da lui mutuata
dal Vico, che però - si sa - non era del tutto un crociano:
lui non aveva idee che gli impedivano di condividere altre
idee, come quelle di sopravvivenza e risurrezione. Idee,
queste, che ora vengono non più solo dalla fede, ma anche
dal sapere scientifico: le reliquie della “Passione” (sindone,
sudario di Oviedo, tunica d’Argenteuil e Treviri, cuore
eucaristico di Lanciano …) rimandano,per un impressionante
fascicolo di convergenze scientifiche, tutte ad uno
stesso fatto, ad una stessa persona. Una volta appreso un
simile verdetto della scienza, nessun ateo potrà più dirsi
sicuro che Dio non esiste o che non era in Gesù; e mi conforta
poter ritenere che il mio corpo diventerà, prima o poi,
luce come quello di Gesù risorto. Questo mi rasserena,
perché mi fa credere, con Seneca, che sarò di un’altra luce
nel giorno di un eterno natale. Molti indizi, infatti, fanno
ritenere che Seneca abbia conosciuto, udito o letto san
Paolo; e che abbia creduto all’Apostolo: poiché lo spirito
di Dio, che ha risuscitato Gesù abita in te, colui che ha risuscitato
Cristo ridarà la vita anche al tuo corpo mortale
per mezzo di quel suo Spirito che è in te.
***
L’invocazione
Sento che queste ultime idee mi ronzano in testa come
un paio di api rimaste dentro un alveare. Mi rialzo e, mentre
tolgo lo sguardo dal Sanvicino scomparso dietro le nubi
incendiate dal sole morente, mi riaffaccio prima verso la
marina non ancora scolorita dal grigio azzurro della sera;
poi a riguardare tutte ad una ad una le cime delle montagne
dei Sibillini. E mi ritrovo, così a pensare cose diverse
da prima: a quel mondo sotterraneo immaginato in antico
possibile nelle viscere di quei monti. Al mondo, cioè, della
Sibilla, della saggia e un tempo benevola divinatrice che,
sgusciando dall’ampolla che la racchiudeva e non volendo
più morire, lì si rifugiò mutata in Alcina: in quella maliarda
regina degli abissi capace, nel suo talamo tenebroso e in
combutta con Lucifero, di ogni più lussuriosa metamorfosi
per ridurre gli uomini in suo potere, irata com’era per non
essere stata eletta lei (secondo gli Oracoli Sibillini) ad esser
madre del divin Salvatore. Dalla leggenda di quel tipo
di sopravvivenza e di questa “Avversaria di Maria” sono
indotto a rivolgermi di nuovo verso Loreto. E dopo aver
per un attimo sostato sul colle de L’infinito ricordando
Leopardi, riconsidero la verità della tradizione lauretana ed
entro mentalmente nel Santuario con il poeta; ed insieme a
lui recito, con un qualche poco di mio, questa preghiera:
« O Vergin Diva,
prostesi nel tuo lauretano sacello,
noi con più confidenza ci appressiamo
a pregarti di tutto cuore
che vegli su di noi e c’indirizzi
da questa scelta dimora picena
pel retto sentiero della virtù.
È vero che siamo tutti malvagi,
ma non ne godiamo, siamo tanto infelici.
È vero che questa vita e questi mali
sono brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli
e ci riescono lunghissimi e insopportabili.
Tu che sei già grande e sicura,
abbi pietà di tante miserie.
E se mai t’abbiamo detto madre
e se t’amiamo tra le creature
quale creatura più bella e buona,
deh aiutaci a sperare e a credere
in quell’ “evangelo” del figlio tuo:
“Chi crede in me e mi segue sa che,
anche se soffre e muore,
sarà felice e vivrà».
***
Uno degli “aforismi sulla saggezza del vivere” di
Schopenhauer, recita: la solitudine è la sorte di tutti gli spiriti
eminenti. Non è vero! Perché, come solo era quella vedetta
che mi riaccompagnerà con la sua ombra all’uscita,
anch’io, che non sono eminente, son solo. Dico, però, che mi
sento bene così soltanto se dimentico di essere in
compagnia di una persona da poco: quando non mi accorgo, cioè,
che, per star bene con me, mi bastano i miei pensieri.
Tuttavia non mi reputo su questo un Lopez de Vega; e do,
anzi, ragione a Paul Valéry, che scrisse: un uomo solo è
sempre in cattiva compagnia. Ma se è così, avrebbe allora
ragione anche la Emily Dickinson a dire: che grande peso
sarebbe stare soli quassù ed essere Qualcuno!
Penso, comunque, di poter concludere che lo star bene
può essere messo ad ognuno in pericolo, senza una buona
riserva di quella solitudine che ci permette di essere in
effettiva compagnia, cioè nella propria; e che lo sguardo
rivolto così, dall’alto di una torre antica come questa, crea
uno spazio nuovo nella nostra mente. Uno spazio capace di
darci una dimensione delle cose diversa dall’ordinario; e
che rimane ancora il più adatto a rapportarci con
l’ambiente che, per volere divino (com’io penso e mi auguro) e
non per caso (che è idea terribilee senza rimedio, se vera),
ci ha fatto nascere e ci contiene. Perché è guardandolo dal
punto più in alto che si è indotti ancor più del solito a
pensare al nostro rapporto col mondo: che facciamoparte di
un’immensa vita; e al nostro destino: dove siamo, da dove
veniamo e dove andiamo; per quale scopo si vive; che c’è
o che ci aspetta al di là dell’ultimo orizzonte, oltre la luna,
più oltre e più su delle stelle che c’inducono a pensare a
quel Lassù (che pensiamo buono e che non sta solo al di là
di esse) e a porlo - così fece, da ultimo, un credente
Leopardi - come Principio ancora più alto e prima di loro.
È a queste e al prossimo chiaro di luna che penso mentre
- caduto lo splendore del sole dietro quelle nubi che di
bruno rossiccio si fanno man mano di fuoco e richiudendomi
dietro la botola - prendo a scendere gli scalini di legno
(foto 140)
al sopraggiungere dei primi respiri del
crepuscolo sospinti da un lene spirare di vento e prima che la
sera tutto imbruni e poi accenda i suoi lumi in cielo, nei
centri urbani della regione e nella campagna e dintorni. Mi
dico che tornerò sotto questa torre più tardi, quando sarà
dolce e chiara la notte, e i paesi vicini e lontani
risplenderanno dalla marina verso le colline e la montagna come
altrettante galassie e ammassi stellari.
Accovacciato alla sua base
(foto 40),
attenderò che la
luna, lasciando furtiva sbadigliare assonnato il suo Endimione,
spunti dall’infinito seno dell’Adriatico e prenda ad
inargentar della notte il velo. Senz’aspettare che giunga al
culmine del suo arco celeste, la guarderò stupito come
Leonardo; e, nell’alto silenzio fatto da essa, come lui mi
dirò: la luna, densa e grave, densa e grave, come sta, la
luna? E, vedendola vagar così muta, le ripeterò: che fai tu,
luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Badando poi
al suo sereno andare, la guarderò nel suo far capolino
giocosa da dietro le nubi sopra il tenue sbiancare della marina;
oppure la seguirò come Petronio alta gradiens Appennini
nobilis juga: diretta verso il dorso nudo e scabro delle
creste del Vettore e la Sibilla di poco orlate da neve, prima
del suo tramontare dietro il Sanvicino.
E da lì sotto la torre, con le spalle appoggiate di nuovo
alle sue mura, ancora una volta e come faceva Catullo,
proverò a spiarla per scoprire che fa: per chi, nascosto tra
colline o su quelle montagne, per chi è insonne la figlia del
sole, a chi sta facendo la corte la dea della notte: a qual suo
dolce amore sorride, stasera, la luna.
***
Epilogo
Scendendo, e già dai primi scalini, verso il buio della
torre aiutato dal debole raggio della mia pila, non
immagino più come prima arcani mondi, arcana felicità al mio
futuro. Venendomi in mente all’improvviso, per il
sopraggiungere dell’oscurità, l’ammonimento evangelico e
leopardiano a non preferire le tenebre alla luce, e ricordi
di “morienze”e rianimazioni, per cui l’io sopravvivrebbe
cosciente fuori dal corpo anche dopo la fine clinica del
nostro cervello, mi esce di mormorare: «Quando sarà il
mio turno, quando spenti mi saranno gli occhi, fammi
finire, Signore, nel nulla, se non potrò vederti venire da me
almeno come un raggio di luce. Fin d’ora ti prego: che io
non rimanga solo nella tenebra, come in un tunnel oscuro
di una immane prigione, come in questa torre: in balia del
buio… solo nell’oscurità della notte… della notte più
lunga, più nera. Fammi allora luce – ti prego, mio Dio –
più luce di adesso, Signore, molta, molta più luce!».
Fermo nel mezzo della scalinata, poso la pila, apro in
avanti le palme e mormoro, cantandolo mentalmente un
po’ tra impaurito e commosso, il Benedictus qui venit in
nomine Dominidella “Messa Solenne” di Beethoven.
Così messo, continuo l’invocazione: «Se terrorizzato
e solo in quell’oscuro e sovrumano silenzio, che io
ti veda, Signore, e ti senta chiamarmi per nome e ripetere
anche a me: Io sono la luce e la vita: non temere
… non avere paura! E che siano quella luce e quella
tua voce - Rabbunì! - l’inizio della gioia: della gioia
celeste che da te viene e che mi aspetto di fruire
naufragando in altri panorami ancora più splendidi assai
del belvedere visto quassù, da questa torre».
PITINO 1980
LASSÙ',
DOVE ULTIME, ORA, LE SERPI
NUTRONO UN CIELO NERO DI CORVI,
E LA LAVANDA IL SUO PROFUMO
DISTENDE SOPRA GLI STERPI RIARSI,
E LE OSSA ALLA TERRA CONTENDONO
IL RAGGIO DI SOLE CHE LE RISCALDI,
LASSÙ' IO SONO NATO,
NEL RESPIRO AFFANNATO
DI CHI PRIMO SALI' LA CHINA,
NELLE FORTI BRACCIA SCURE
CHE ALLA ROCCIA STRAPPARONO
LE PIETRE D’ANGOLO DEL FUOCO,
NEL DOLORE VESTITO DI NERO
DA UNA BARA NON PIÙ' DI TRE PALMI,
NEI PENSIERI DI PIETRA
DI UNA FRONTE SCOLPITA DAL TEMPO,
NELL’ATTESA COSTANTE CHE QUALCOSA
NON TURBI UNA QUIETE CHE NON C’E'.
(Dr. Aldo Bisello)
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