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In questi ultimi decenni pochi scavi archeologici sono
bastati ad accentuare il già noto e costante rilievo avuto da
Pitino nella storia politica, militare e culturale in genere. Il
ruolo svolto da Pitino, però, si accentua innanzi tutto nello
studio della paleontologia locale, e poi nella protostoria e
storia della primitiva civiltà picena.
Se poi si porta l’attenzione ai risultati degli scavi esposti
nei musei archeologici di Ancona e Sanseverino Marche,
l’importanza storiografica di Pitino si chiarisce e aumenta
soprattutto dal punto di vista dell’interesse artistico.
Ma gli archivi di molti Comuni maceratesi
ancor di più l’importanza che Pitino ha avuto in tutta la storia
locale del periodo non tanto romanico, quanto piuttosto
medioevale, comunale e pre-rinascimentale.
Si può quindi, ripetendo le parole del professor Dante
Cecchi e il giudizio dello studioso Sabatino Moscati, dire
che “Pitino ricorre di sovente nella preistoria e nella
storia”. E questo ricorrere varca, per importanza culturale, i
confini del territorio maceratese e non interessa solo la
storia locale.
Premessa ai testi del Gubinelli e Landolfi.
Il colle di Pitino, localizzato a circa 8 km. a nord-est di
Sanseverino Marche, sovrasta la vallata del fiume Potenza
e, come abbondanti reperti testimoniano, ha non solo
conosciuto una lunga frequentazione umana durante la
preistoria, a partire già dal Paleolitico, ma, per la sua
posizione naturalmente fortificata e strategica, ha pure avuto
una costante e primaria importanza in tutta la storia della
vallata, da sempre via di collegamento naturale tra la
zona appenninica umbro-marchigiana e la fascia costiera
adriatica.
Pitino in epoca picena, di Amedeo Gubinelli e Maurizio Landolfi
«Varie sono le opinioni circa l’origine e l’importanza di
Pitino. La più probabile è che sia stato abitato dopo gli
aborigeni dai Piceni, come gli altri piccoli villaggi situati
sui colli che circondano la stretta valle del Potenza.
I Piceni o Picentes erano una colonia di Sabini, che
lasciarono la loro terra d’origine per voto di Sacra Primavera.
La Primavera Sacra, Ver Sacrum, era un antichissimo
rito religioso degli Italici. Essa veniva proclamata dal tempio
di Giove Padre, il santuario maggiore della Sabina,
considerato come l’ombelico d’Italia e situato presso la località
di Cutilia, tra l’odierna Antrodoco e Città Ducale.
Un gruppo di giovani, consacrati in quell’occasione,
lasciavano il territorio dei Padri in cerca di nuove sedi: essi
erano guidati da un dio, che inviava loro come guida, un
animale: in questo caso il picchio, Picus, da cui Picentes.
I Piceni fondarono vari villaggi lungo la costa dell’
Adriatico e nell’interno della regione, che poi si chiamò da
loro Picenum.
Numerosi sono i villaggi, pre-piceni e piceni, nel nostro
territorio. Si può dire che ogni cucuzzolo ne avesse uno.
Tra gli altri uno risulta il più importante perché il più alto e
forse il più munito: P ITINO .
Le fortificazioni dei villaggi non consistevano certo,
come altrove, in mura ciclopiche, poiché le risorse del
terreno non lo permettevano, ma in terrapieni formati da
tronchi d’albero e pietra arenaria. Niente è rimasto di
queste fortificazioni, né dei vari villaggi piceni.
Le necropoli, che si vanno man mano scoprendo sul
territorio di San Severino, testimoniano la presenza dei Piceni
e il loro grado di civiltà.
La più importante necropoli è quella di monte Penna,
presso Pitino. Le tombe, disposte in ordine sparso, sono
spesso ricavate nello scoglio d’arenaria e misurano circa 2
metri di lunghezza per 1,20 di larghezza.
Veniva deposto in esse il corredo funebre, più o meno
ricco a seconda dell’importanza del personaggio. È da
notare che gli oggetti che formano tale corredo, non erano
mai usati nella vita quotidiana, ma erano stati comperati e
messi a parte esclusivamente per adornare la tomba.
Questa veniva chiusa, il più delle volte, con spessi tavoloni di
quercia, ricoperti con sassi e terra. Col passare dei secoli le
tavole sono crollate, schiacciando il contenuto della tomba,
specialmente gli oggetti d’argilla.
Non si trova traccia d’inumazione, né di cremazione di
cadaveri, per cui ancora s’ignora il modo con cui i Piceni
seppellissero i loro morti. Una delle ipotesi è che essi
cremassero i cadaveri sopra la tomba contenente il corredo
funebre e già chiusa e che conservassero poi le ceneri, in
urne funerarie, nelle loro capanne, oppure che esse fossero
disperse dalle intemperie, dopo la cremazione.
Dalle tombe del monte Penna sono venuti alla luce
bronzi, vasi ed oggetti risalenti al VI sec. a. C.
testimonianti la civiltà picena originaria; vasi in terracotta a
decorazioni geometriche di color nero, spade di bronzo, alcune
ripiegate per farle stare nello stretto abitacolo della tomba,
o più probabilmente per impedire che venissero usate da
eventuali profanatori di tombe; carri da guerra, elmi,
ornamenti di corazze, che indicano il carattere fiero ed
indomito degli antichi Piceni.
Accanto a questi oggetti ne sono stati trovati altri di
provenienza greca, etrusca ed orientale.
Le tombe del Guerriero e della Principessa e la
cosiddetta tomba greca contenente tesori d’arte come il
rarissimo uovo di struzzo, trasformato in brocchetta, con
l’ aggiunta di una bocca a testa femminile ed una specie di ansa
a canestro, in avorio, rivestito d’oro: l’uovo (foto 208)
finemente cesellato ed è di sicura provenienza orientale.
È stata poi ritrovata una pisside d’avorio intagliata con figure
umane e d’animali (foto 205), databile alla fine del VII sec.
a. C. Questi sono lavori di provenienza orientale, forse
assiro–babilonese ed indicano, assieme ai vasi greci di
splendida fattura, oltre al buon gusto degli antichi Piceni,
anche l’intensità dei loro commerci con l’Oriente e con il
resto dell’Italia; commerci che avvenivano tramite l’attivo
porto di Numana.
L’attività principale dei Piceni era l’agricoltura ed i loro
commerci consistevano appunto nello scambio dei prodotti
della loro terra. I Piceni non erano quindi una popolazione
rozza e chiusa alle infiltrazioni commerciali, o comunque
attardata, ma anzi, aperta a tutto quello che poteva in
qualche modo giovare alla crescita della loro civiltà.
I Piceni non hanno letteratura, la loro lingua è, come
quella etrusca, di difficile ed incerta interpretazione e ne
restano solo brevi scritte tracciate su stele di arenaria; ma
essi hanno una cultura che queste infiltrazioni orientali non
distruggono. Essi comprano questi oggetti per il corredo
delle loro tombe, perché ne conoscono e ne apprezzano la
bellezza ed il valore, tant’è vero che li imitano.
Infatti sono stati anche rinvenuti oggetti di fattura
picena, ma di ispirazione greca od orientale, che indicano il
senso artistico dei Piceni, che però non si limitano ad
imitare passivamente i modelli di altre civiltà, ma sanno unire
le nuove forme a quelle originarie della loro cultura,
riuscendo a creare modelli artisticamente validi».
(Amedeo Gubinelli, San Severino Marche. Guida storico
artistica. EDC Edizioni, pp. 9-10, Macerata, 1975)
A parziale corollario (e correzione: talune informazioni, qui
e altrove, del Gubinelli sono solo “opinioni” tradizionali,
frutto più di buona volontà che di conoscenza; e, se si lasciano
parlare, il desiderio e la passione “ne sanno sempre più di un
avvocato”) – a corollario di quanto sopra si è detto a
proposito del tipo di sepoltura praticato nella necropoli picena di
Pitino, è opportuno considerare quanto segue:
«Piuttosto che vedere in queste tombe depositi votivi, o
essere costretti a pensare a particolari modalità di deposizione
della salma per giustificarne il mancato rinvenimento,
alcune di queste fosse, soprattutto se in coppia, potrebbero
essere considerate come camere con suppellettili e arredi da
unire alle fosse di tumulazione con ornamenti personali.
Le ricche associazioni di tombe della necropoli di Pitino
documentano l’adozione, da parte di questa piccola comunità
picena, della cultura di tipo “principesco”, già affermatasi,
dalla fine dell’VIII sec. a. C. sul versante tirrenico nelle
città dell’Etruria meridionale e nei centri del Lazio antico.
L’aristocrazia locale, orgogliosa e fiera delle proprie origini
e tradizioni guerriere e pastorali, di gente abituata a continui
movimenti e sempre disposta a imprese militari, senza
rinunciare a razzie e rapine, accumula grandi ricchezze anche
con il controllo dei flussi commerciali che avevano bisogno
di attraversare la conca settempedana.
Gli aristoi piceni dell’alta valle del Potenza si trovano,
in questo modo, inseriti in una rete di scambi di doni di
prestigio, attuati all’interno di un circuito tra individui di
pari dignità appartenenti a culture ed a aree geografiche
diverse, secondo il modello omerico di regalità di lontane
origini anatoliche con la deposizione nelle tombe di
preziosi keimelia, oggetti di lusso, con raffinati arredi e
apparati da esibire con ostentazione ed enfasi.
La compresenza nel comprensorio di Pitino di materiali
esotici e di oggetti di lusso provenienti dall’Etruria e dal
Mediterraneo orientale, unitamente a produzioni locali di
grande ricercatezza e originalità con apporti anche dell’
area falisco-capenate e sabina (avorio, bronzo e soprattutto
ceramiche dalle elaborate e fantasiose decorazioni a tutto
tondo, ad incisione e “ad incavo”) dimostra la vitalità e la
grande apertura di questa dinamica comunità».
(Maurizio Landolfi, Il Museo Civico Archeologico di San
Severino Marche, Tipoluce, pp. 34-35, Osimo, 2003).
***
La storia di Pitino è ultrasecolare; e parlare di “castrum
Pitini”, come fa Maurizio Mauro nel primo volume della
sua collana “Castelli delle Marche”, è parlare di Pitino solo
di alcuni secoli fa, e quindi quasi di ieri o l’altro ieri rispetto
alle ere di tutta la sua storia passata.
«Il toponimo castrum Pitini» esordisce il Mauro,
ripetendo il già detto da molti altri, «sembra trovare origine
nella corruzione del nome di chi fondò il castello, tale
Marco Petilio, nobile settempedano che, dopo le invasioni
barbariche, si diede a governare la sua città natale, San
Severino, la “bellicosa”».
Naturalmente, anche questa fondazione di Pitino riportata
dal Mauro (e condivisa dal Paciaroni), come tutte le
“fondazioni” di antiche città raccontate dalle “storie”, è anch’essa
una storia “infondata”: i Petilio che si conoscono sono di
epoca romana, e quindi pre-medioevale: sono vissuti prima
delle invasioni barbariche. E poi, ci sono altri Pitino non
fondati così. E la tesi di un Petilio come fondatore di Pitino serve
a giustificare le aggressioni che dal castello di Montenero
prima e dal Municipio sanseverinate dopo venivano fatte a
Pitino, rivendicandolo come proprio già prima d’averlo
aggredito, conquistato e distrutto. La città di Sanseverino è detta
la “bellicosa” soprattutto per le guerre fatte per conquistare e
demolire Pitino.
Il Comune settempedano ha, quindi, non fondato, ma
distrutto Pitino; e continua a farlo. Tranne quella parte che
possono raccontare i molti reperti archeologici, le
pergamene (quelle che, per lo più, hanno per oggetto la cronaca
militare) e pochi altri documenti d’archivio (e non tutti), la
storia antica di Pitino è, in gran parte, immaginazione,
congettura e tradizione, come del resto lo è, in parte, quella
di Sanseverino. I nostri storici, come quelli di tutti gli altri
paesi, si incaricavano di fornire i più minuti particolari,
inventandosi quello che non potevano sapere, o di far
dimenticare quello che non si doveva sapere.
Ciò nonostante, trascriviamo di Pitino prima quanto
racconta e sintetizza uno storiografo locale che possiamo ritenere
competente, anche se restringe, confonde e identifica, senza
alcuna riflessione critica, lo storico col documentato; e poi una
pubblicazione della dottoressa Anna Maria Micozzi Ferri:
lavoro accurato, nonostante qualche inesattezza.
Pitino in epoca medioevale, di Raoul Paciaroni.
Dalla statale settempedana, su per i tornanti di una
strada bianca che si allunga tra le querce, si raggiunge l’antico
castello di Pitino in pochi minuti. Arrivati in cima al colle
è opportuno fermarsi per ammirare, stagliata contro il
cielo, una torre superba che sfida davvero i secoli. Alla sua
destra sembrano ergersi in un disperato tentativo di
fierezza i resti delle mura castellane.
Questo era il lato più forte della cinta muraria perché vi
si accedeva più facilmente che non dal versante rivolto a
Sanseverino.
Proseguendo quindi a piedi si arriva sotto il torrione. È
una costruzione imponente, di severa bellezza, che
malgrado il lungo abbandono si erge ancora come sintesi di
forza e di architettura mirabile. Da qui si scorge un
paesaggio fantastico: da tramontana a levante moltissime città
e paesi con una striscia dell’Adriatico innanzi; da
mezzogiorno a ponente un immenso arco di colline e di
montagne sfumate d’azzurro all’orizzonte.
In lontananza ruderi di altri castelli e fortezze sono una
cosa sola con il paesaggio e con le memorie di un passato
suggestivo. Aliforni, la Roccaccia, Isola, sono le torri che
oggi rimangono, quali più quali meno abbandonate e
cadenti, a ricordarci un antico sistema difensivo comunicante
col fumo di giorno e col fuoco di notte.
Al contrario di questi castelli che dovettero essere semplici
fortilizi di difesa e di segnalazione, Pitino fu un vero e proprio
complesso fortificato, tipica dimora del periodo feudale.
L’importanza di Pitino è dimostrata dalla mole delle
mura castellane, il cui perimetro è di circa 400 metri (per
un confronto basta ricordare che il circuito del castello di
Aliforni è di circa 240 metri e di 200 metri quello del
castello di Carpignano) e che in parte rovinarono ed in parte
servirono da cava di pietra per le casette del villaggio.
Le mura avevano un andamento rettilineo con torrioni
rettangolari agli angoli distanti circa 40 metri l’uno dall’
altro ed in uno dei quattro torrioni si apriva la porta che
recentemente è stata restaurata.
Questo castello, ideato e ricostruito come fortezza a sé
stante da qualche architetto abilissimo del principio del
secolo XIII, era praticamente imprendibile. Certamente,
però, già dal periodo premedioevale il luogo doveva essere
abitato a scopi militari.
I documenti storici (sic!) più antichi (sic!) non
oltrepassano il Mille, ma la sua posizione strategica e la natura del
luogo atto ad essere fortificato e ben difeso, fanno pensare
(sic!) che molti secoli prima sia stato prescelto quale
sicuro rifugio contro le scorrerie dei barbari e dei pirati che
dall’Adriatico risalivano per la valle del Potenza in cerca
di preda. Gli antichi scrittori sostengono infatti l’ipotesi
che proprio in quel tempo sia stato fondato il castello per
opera di un nobile settempedano, Marco Petilio (foto 141),
che diede il nome al castello stesso e che governò la città
di Sanseverino dopo l’ondata delle invasioni barbariche.
Nel Medioevo, il castello di Pitino contribuì molto alla
fama che Sanseverino ebbe di “città bellicosa”, infatti
molte furono le controversie sorte tra i sanseverinati da una
parte ed i treiesi ed i tolentinati dall’altra a causa di questo
castello ed a lungo se ne contesero il dominio con le armi.
Intorno all’anno 1192 il castello doveva essere di
proprietà di una famiglia feudale, perché in quell’anno il
Signore, Gentile da Pitino, si assoggettò a Montecchio
(Treia) per essere difeso da qualunque attacco. Il Comune
di Sanseverino però avanzava già le sue pretese sul castello
di Pitino, per cui in aiuto di Montecchio nel 1198 si erano
dichiarati i camerinesi, sempre ostili ai sanseverinati.
Ma Sanseverino, fin dal 1199 aveva posto l’assedio a Pitino
ed aveva dichiarato guerra a Camerino, Cingoli e Montecchio
che pretendevano ciascuno il possesso del nostro castello.
Rimessa la decisione della lunga controversia ad un
arbitro, i sanseverinati non si quietarono se non nel 1217 e
stipularono un’alleanza con Montemilone (Pollenza) e
Matelica contro Tolentino costringendo anche i montecchiesi
a chiedere la pace due anni dopo.
La guerra contro Tolentino era stata determinata da
alcuni avvenimenti: nel 1205 Gentile e Grimaldo da Pitino si
erano posti sotto la difesa di Tolentino, concedendogli il
castello con gli uomini, le possessioni e la giurisdizione,
promettendo anche di non andare ad abitare in Sanseverino
senza il consenso del Comune tolentinate, il quale diede
loro in compenso una vigna, due case, un mulino e si
obbligò ad aiutarli nella guerra che avevano con i sanseverinati.
Quindi nel 1225 Marcualdo, figlio di Gentile da Pitino,
promise di essere perpetuo castellano di Tolentino,
confermando così il convenuto dal padre. Il Comune di
Tolentino seguitò a godere il possesso del castello, finché
Federico II reduce dalla Palestina se ne impadronì insieme a
tutte le Marche nel 1239, spogliando Tolentino della sua
giurisdizione e cedendolo al Comune di Sanseverino,
fedele all’Imperatore.
Allontanatosi poi Federico II dalla regione, nel 1243
Innocenzo con suo breve restituì Pitino a Tolentino. Nel 1244
questo Comune, con quelli di Camerino e Montecchio
convennero di difendere Pitino dalle forze dei sanseverinati che
lo volevano sotto di loro e che erano riusciti a riprenderlo.
Sanseverino si mantenne fedele al partito ghibellino anche
quando, deposto nel Concilio di Lione l’Imperatore Federico
II, quasi tutte le città marchigiane si schierarono con i guelfi.
Per tale motivo e per la riaccesa questione di Pitino nel
1248 si allearono i tre Comuni di Camerino, Montecchio e
Tolentino, insieme a molte altre città, contro il deposto
Imperatore e contro i sanseverinati per il recupero del castello.
Con il regno di Manfredi, figlio naturale di Federico II,
la fortuna arride di nuovo a Sanseverino che conquista con
le armi diversi castelli, tra cui Pitino, e prende parte anche
alla distruzione di Camerino (anno 1259). Ma tramontato
con la battaglia di Benevento il regno di Casa di Svevia, i
guelfi ebbero ovunque il sopravvento ed anche
Sanseverino dovette assoggettarsi al pontefice.
Fu allora che i camerinesi credettero giunto il momento di
ritogliere ai sanseverinati, che se ne erano impadroniti con
l’aiuto di Federico II e di Manfredi, i castelli di Gagliole, Pitino
e Crispiero, ma riuscirono a riprenderli tutti meno Pitino,
che definitivamente restò in possesso di Sanseverino.
Null’altro di rimarchevole offre la storia di Pitino, tranne
l’assedio delle truppe pontificie nell’estate del 1426.
Quando Antonio, l’ultimo della signoria degli Smeducci ad
avere il potere su Sanseverino, fu sconfitto e fatto prigioniero
dagli eserciti del rettore della Marca, i suoi figli
Smeduccio ed Apollonio tentarono un’ultima resistenza,
organizzando la difesa nei castelli di Pitino, Aliforni e Serralta.
Ma la resistenza fu vana; i due castelli di Aliforni e
Serralta si arresero quasi subito.
Proseguendo nelle vittorie, i pontifici ebbero nel giugno
le rocche di Bisaccia e Torre, e portarono poi il campo a
Pitino, mentre Apollonio, che ne aveva la difesa, lasciato
segretamente il castello, corse a Roma per implorare la
clemenza del papa Martino V. La resa immediata di Pitino
fu la condizione imposta dal pontefice ad Apollonio per la
liberazione del padre e dei fratelli che gemevano nelle
prigioni di Ascoli e Terni: così senza vittime il nostro castello
di Pitino vide l’ultimo assedio della sua lunga esistenza.
Ma a testimoniare questo suo passato glorioso resta
l’imponenza della torre intorno a cui branchi di falchi
volteggiano, come a scrutare dall’alto i fantasmi degli armati
caduti sotto le mura nelle sanguinose battaglie di un tempo
ormai dimenticato.
(Raoul Paciaroni, L’Appennino camerte, n. 20 del 29 maggio 1971).
Il castello di Pitino: perché fu venduto
di Amedeo Gubinelli
A seguito dell’interrogazione posta al sindaco dal
consigliere Grandinetti sulla vendita del castello di Pitino, si è
risvegliato l’interesse del pubblico sulle vicende del
tormentato castello.
Ci siamo interessati per conoscere l’esatto svolgimento
dei fatti e soprattutto il perché della vendita da parte della
parrocchia di Pitino, proprietaria del castello. La chiesa di
Pitino al castello non corrispondeva più all’esigenza dei
fedeli; rimasta isolata sul cucuzzolo del colle, era ormai
talmente distante dalle varie contrade della parrocchia da
poter essere raggiunta solo con grande sacrificio, essendo
difficoltoso arrivare in cima anche l’auto. Si decise perciò
di costruire una nuova chiesa in località “Cappella di
Pitino” più comoda da raggiungere, posta com’è sullo sbocco
dell’anulare che circonda il colle.
La vecchia chiesa, inoltre, era pericolante e la sede
parrocchiale era già stata trasferita più in basso nei locali della
scuola elementare. I vecchi edifici rimasero senza nessuno
che li custodisse e la diocesi non aveva i mezzi necessari per
proteggere tale monumento dai vandali, che incominciarono
ben presto le loro visite.
I giornali di quegli anni riportarono più volte la cronaca
degli atti vandalici compiuti nella ex chiesa parrocchiale,
nella cappellina di S. Antonio, antico cimitero ed in tutto il
perimetro del vecchio castello trasformato da certa brava
gente di estrema sinistra (hanno lasciato come firma slogan
e frasi inneggianti al loro movimento) in palestra di
esercitazioni al tiro della pistola.
Quel che non si era potuto portare nella nuova sede ed
era rimasto chiuso a chiave nei locali della chiesa e dell’
edificio parrocchiale, venne distrutto: statue di santi
profanate e prese a revolverate, pavimenti sfondati, finestre
fracassate, muri imbrattati. Non fu rispettato nemmeno il
vecchio cimitero: vennero aperte varie tombe e trafugati teschi
ed ossa per non so quali macabri usi.
Non si capisce come l’amministrazione comunale di
allora non si sia interessata a questi fatti, né abbia avuto
preoccupazioni o in iniziative per salvare questo complesso
monumentale dalla rovina.
La soluzione di vendere si presentò quindi alla curia vescovile
come quella ottimale. Inoltre si pensava di utilizzare
il ricavato per completare il nuovo complesso parrocchiale
che stava sorgendo alla “Cappella” di Pitino ed il
cui rustico era stato realizzato con il contributo statale
(legge 18-4-1968). La somma ricavata è rimasta invece
congelata in banca in attesa di essere reinvestita, secondo
la legge, in beni redditizi a beneficio della parrocchia.
Per la vendita dei beni della Chiesa c’è bisogno dell’approvazione
dello Stato. La Curia inoltrò perciò regolare
domanda alla Prefettura (che è l’organo competente) per
ottenere il nulla osta. E la Prefettura fece compiere vari
sopralluoghi e attraverso l’UTE (ufficio tecnico erariale) fece
stimare i fabbricati e ne indicò il prezzo.
Nel giugno 1970 si presentarono i primi acquirenti, i
signori Foglia ed Ungaro, residenti rispettivamente a
Bianziano ed a Monza. Il castello fu contrattato per sette
milioni e cinquecento, ma non avverandosi alcune condizioni
poste, la trattativa non venne conclusa.
Fu a questo punto che il prof. Piangatelli richiese ripetutamente
all’Amministrazione comunale di acquistare il complesso
monumentale di Pitino per destinarlo a centro di studio
e salvarlo dalla distruzione. La somma non era eccessiva, ma
il Comune rispose di non essere interessato all’acquisto.
Dopo varie vicende che qui sarebbe lungo riportare, si aprì
la trattativa con la “Società Castello di Pitino” s.r.l.” con sede a
Pievebovigliana. Per essa trattarono il geom. Luciano Sabbatini
come amministratore unico, e il dott. Pacifico Fattobene
come socio. Il rogito notarile venne stipulato il 12 marzo 1970.
La vendita è stata effettuata dalla Curia con piena tranquillità,
perché tra gli altri interventi c’era stato anche
quello della Sovrintendenza ai monumenti che aveva richiesto
agli acquirenti un progetto di conservazione e di
sviluppo del castello: esso sarebbe dovuto servire , secondo
il progetto come “centro studi”.
Gli acquirenti tra l’altro si impegnavano, come si legge
nell’atto di vendita (art. 3, lettera a) ad osservare quanto
segue: «La chiesetta di S. Antonio dovrà rimanere destinata
al culto religioso ed in essa dovrà essere garantito il rispetto
delle sepolture ivi esistenti».
Purtroppo, con rammarico della Diocesi e della popolazione,
non è stato ancora messo in atto ciò che gli acquirenti si
erano proposti: dopo un primo tentativo di restauro il complesso
monumentale è rimasto nel più completo abbandono.
Con tutto il rispetto del signor Grandinetti, era da chiedere
al Comune non se era vero che il castello fosse stato
venduto, ma 1) Perché il Comune s’era lasciato sfuggire
l’acquisto del castello di Pitino (tra l’altro non si è ancora
stabilito con chiarezza se la torre sia di proprietà della parrocchia
o del Comune); 2) Cosa intende fare presso la società
acquirente o presso la Sovrintendenza perché venga
impedita la distruzione di tale importante monumento.
(Amedeo Gubinelli, L’Appennino camerte, n. 24 del 16
giugno 1979).
N.B.: Sia consentito rilevare che a proposito dell’atto di vendita
(art. 3, lettera a), la “Società Castello di Pitino” mantenne gli impegni con la Curia, come
risulta dalla foto n. 20, a pag. 44; e perché ne fosse impedito il degrado, essa
vendette a sua volta il castello al Comune, che ne reclamava l’acquisto
giustificandolo con mirabolanti progetti di valorizzazione. Il risultato, invece, è quello
che si è visto e si vede: quella vendita non fece altro, purtroppo, che consegnare
Pitino in mano a degli incapaci, quando non in quella di burocrati che hanno
fatto, forse, come fanno i topi messi a guardia del formaggio (cfr. foto 21, a pag.
46). A rileggerli, gli articoli del Gubinelli, a tratti e col senno del poi, non fanno
ridere meno delle sue commedie e di alcune frasi dell’articolo che segue.
«Operazione Pitino» di Gualberto Piangatelli
Prende finalmente l’avvio, ed è notizia di cui tutti si
compiaceranno, l’operazione di salvataggio del castello di
Pitino, un primario bene culturale del nostro territorio che,
per le lunghe traversie in cui è incorso in questi ultimi anni
(sic!), ha quasi acquisito il valore di simbolo di tutti i problemi,
di tutte le difficoltà che ci tormentano, anche a livello
nazionale, nell’ardua impresa della salvaguardia, della
tutela e della ottimale utilizzazione del nostro patrimonio
culturale e ambientale.
Si era già preso atto, con soddisfazione, dell’impegno
specificatamente assunto dall’attuale amministrazione
comunale con le programmatiche dichiarazioni nelle quali si
sottolineava la «particolare cura che avranno i monumenti
ed i complessi storico-artistici» tra cui «il castello di Pitino
(il cui acquisto sarà portato a compimento entro brevissimo
tempo)».
Più profonda soddisfazione procurerà la constatazione
che non si è trattato di vane parole; al prossimo consiglio
comunale spetterà la storica decisione, si può dire senza
retorica, di far muovere il decisivo passo all’operazione
«Castello di Pitino». ? da sperare che nel dibattito consiliare
acquistino evidenza quei segnali, che stanno ormai
maturando, di una valida politica dei beni culturali che troverà
nell’operazione Pitino un nuovo banco di prova dopo
quella, già felicemente risolta, del teatro Feronia. La
discussione verterà allora e probabilmente non tanto sull’acquisizione
del bene culturale, la cui utilizzazione dovrà essere elaborata
alla luce della complessa realtà archeologica,
storica, religiosa, sociale, economica e turistica del
castello, quanto piuttosto, sulle condizioni di vendita: e qui
varrà la pena di offrire qualche indicazione.
Nel 1971, allorché la Curia pensa di alienare il castello,
l’Ute lo valuta L. 7 milioni e mezzo; l’atto di vendita è poi
del 1974. Ora l’Ute, in base ai normali parametri di valutazione
per i beni immobili, ha stabilito una stima, così ci si
assicura, di 76 milioni tenendo presenti tutti i vari elementi
e cioè superficie, cubature realizzabili o recuperabili,
valore intrinseco del monumento, etc. L’attuale venditrice
“Società castello di Pitino” avrebbe dichiarato, da parte sua, di
aver effettuato spese per 39 milioni per cui verrebbe a
cadere ogni eventuale accusa o sospetto di speculazione.
Si starà a vedere, anzi a sentire; il sindaco Vissani , così
ha dichiarato, intende garantire l’assoluta limpidezza
dell’operazione Pitino della cui bontà è, del resto, pienamente
convinto nella prospettiva di una opportuna utilizzazione
di questo complesso che potrà rappresentare, per la sua
localizzazione, per il richiamo che in un prossimo futuro
potrà ancora più intensamente esercitare, un punto di
riferimento culturale, sociale e turistico, anche al di là della
realtà regionale oltre che, prioritariamente, per il più vicino
territorio, per la nostra popolazione.
(Gualberto Piangatelli, L’Appennino camerte, n. 49, del 14
dicembre 1985).
Il castello di Pitino di Anna Maria Micozzi Ferri
Il castello di Pitino, il maggiore del territorio, si erge con
le sue imponenti e severe rovine sulla sommità del colle (660
m.) a dominare la valle del Potenza.
Dall’altura lo sguardo spazia sul dolcissimo paesaggio
collinare del maceratese ed abbraccia un vasto panorama, che
dall’arco azzurrino delle catene appenniniche, si estende fino
ala mare Adriatico.
I numerosi reperti, rinvenuti nella zona e portati alla luce
nel corso delle campagne di scavo degli anni '40 e '50,
documentano che il colle, già abitato in età paleolitica, era sede
di un fiorente centro piceno.
La necropoli, appena esplorata e ancora tutta da scoprire,
testimonia la vita ininterrotta dal VII secolo a.C. di un ricco
insediamento, il più importante dell’entroterra maceratese.
Pitino è quindi documento esemplare di una lunga vicenda
umana che ha inizio nella preistoria, gli eventi e la posizione
ne fanno un luogo di grande interesse archeologico, storico e
paesaggistico.
Le origini del casello sono antichissime; il colle, per la sua
posizione, era sicuramente fortificato fin dall’epoca
dell’insediamento piceno.
In seguito, la conquista romana e le mutate condizioni
politico-economiche determinarono l’abbandono dell’altura e lo
sviluppo a valle all’origine della città di Settempeda.
Con il disgregamento dell’impero romano, il colle tornò a
ripopolarsi in quanto offriva un sicuro rifugio contro le
scorrerie dei barbari e dei pirati, che dall’Adriatico risalivano la
valle del Potenza.
La tradizione vuole che il castello di Pitino fosse fondato
proprio in quel tempo dal nobile settempedano Marco Petilio,
dal cui nome si fa derivare il toponimo “castrum Pitini”.
Il possesso di Pitino assicurava il controllo di una delle
principali vie di comunicazione dal mare verso l’interno
nella parte centrale delle Marche. Per questo Sanseverino,
Montecchio (l’odierna Treia), Tolentino, Cingoli e in
secondo tempo anche Camerino, se ne contesero a lungo il
dominio con le armi.
I feudatari signori di Pitino, per difendersi, si posero
prima (nel 1192) sotto la protezione di Treia, poi (nel
1205) sotto quella di Tolentino, che ebbe la giurisdizione
del castello fino al 1239.
In quell’anno l’imperatore Federico II di Svevia, che si
era impadronito di tutta la Marca, lo cedette al comune di
Sanseverino da sempre fedele alla parte ghibellina.
La deposizione di Federico II nel concilio di Lione
(1245) e la fine della casa di Svevia riaccesero le contese; i
guelfi ebbero il sopravvento ovunque. Anche Sanseverino
dovette assoggettarsi al pontefice, ma riuscì a conservare
definitivamente il castello, ricostruito agli inizi del XIII
secolo nell’impianto che ancora oggi si conserva.
Nell’estate del 1426 Pitino subì l’ultimo assedio della
sua lunga storia da parte delle truppe pontificie in lotta
contro gli Smeducci, che vi tentarono l’ultima difesa della
loro Signoria.
La caduta degli Smeducci segnò l’inizio della decadenza
del complesso fortificato, che persa la sua importanza
strategica e la sua funzione, cadde lentamente in rovina.
Parte delle mura e dei torrioni di cinta crollarono già nel
XVI secolo; il resto fu opera del tempo e dell’incuria degli
uomini che, considerando il castello solo una comoda cava
di pietra, ne demolirono ancora una parte verso la metà del
secolo scorso per costruirvi il cimitero parrocchiale e le case
coloniche della zona.
Pitino venne definitivamente abbandonato nel 1969,
quando la parrocchia, che fino ad allora aveva la sua sede
entro le mura castellane, fu trasferita ai piedi del colle nel
nuovo edificio costruito in tempi brevissimi: il progetto è
del '67, il collaudo del '68.
Nel 1974 la Curia diocesana alienava il complesso di Pitino,
non essendo più in grado di mantenerlo. Il 12 marzo
l’intera proprietà era acquistata dalla Società Castello di
Pitino, che si impegnava alla conservazione del complesso
ed alla sua utilizzazione quale centro di richiamo culturale
e turistico.
La zona di Pitino era intanto dichiarata con decreto ministeriale
2 ottobre 1974 di notevole interesse pubblico e
sottoposta a vincolo paesaggistico, in seguito alla richiesta
avanzata nel 1971 dalla Sovrintendenza ai Monumenti,
d’intesa con la Commissione provinciale per la tutela delle
bellezze naturali.
Gli interventi per salvare il castello sono lenti, parziali, e
troppo diluiti nel tempo: nel 1958 la Sovrintendenza ai
Monumenti, in seguito ad un sopralluogo effettuato quattro
anni prima, provvedeva al restauro della torre, senza però
completarlo; negli anni '70 si occupa del rifacimento della
porta di accesso al castello, distrutta nel 1957 da forti venti
che battono il colle.
Nel 1980 viene restaurata dalla Società Castello di Pitino
la chiesetta di sant’Antonio ed è consolidato il lato nord
delle mura castellane, ma il degrado continua inesorabile.
Per la difesa del castello nel 1984 si costituisce nella
frazione di Pitino un Comitato che denuncia agli organi
competenti lo stato di “deplorevole abbandono” e di
“progressiva rovina” del complesso, sollecitando i necessari
interventi ed il rispetto delle condizioni poste dalla Curia
all’atto della vendita: l’officiatura della chiesa di Sant’Antonio
e il mantenimento in loco delle tre campane donate
alla chiesa parrocchiale dai fedeli. Nella petizione si prospetta
all’Amministrazione Comunale “la possibilità e la
convenienza di acquistare quello che a suo tempo non
aveva acquistato”. L’opinione pubblica viene sensibilizzata
dall’Archeo-club d’Italia che, costituitosi a Sanseverino
nel 1985, effettua nell’estate dello stesso anno il suo primo
campo di ricerca al castello di Pitino; un’esperienza che si
ripete nell’ estate dell’ '86 e che si tenta di portare avanti
negli anni 1987 e 1988 senza successo in quanto
l’Amministrazione Comunale è nell’impossibilità di garantire
i trasporti, il minimo indispensabile richiesto da
un’Associazione priva di mezzi, basata sul volontariato.
L’intervento dell’Archeoclub fa comunque conoscere a
livello nazionale la situazione di Pitino e determina
l’acquisto del castello da parte del Comune di Sanseverino;
l’atto è stipulato il 7 gennaio 1988. Pochi giorni dopo
l’Archeoclub organizza una tavola rotonda sul futuro del
medioevale del complesso; segue nell’estate del '90 una
significativa mostra documentaria, nuovamente riproposta
nell’autunno nelle scuole cittadine.
Nel 1989 erano intanto iniziati a cura della Sovrintendenza
i lavori di restauro, rivolti unicamente alla ex chiesa
parrocchiale, mentre il resto, di ben maggiore interesse, era
lasciato in stato di abbandono.
Altre minacce incombevano sul castello: le continue
incursioni di vandali profanatori, che con i loro tenebrosi riti
devastavano l’ossario e il cimitero, e la progettata istallazione
di una discarica di rifiuti speciali proprio a ridosso
del colle di Pitino. Questo fatto provocava la vivace
reazione degli abitanti della zona e dell’Archeoclub che
interveniva presso l’Amministrazione e le Sovrintendenze
competenti per impedire un ulteriore scempio. Il progetto
veniva per il momento accantonato.
Vittorio Emanuele Aleandri, storico locale, regio
ispettore dei monumenti, nel 1894 denunciava già la decadenza
del castello, che gli appariva come “un paese recentemente
devastato” e il deplorevole stato in cui erano ridotte le
mura e la torre, attribuibile alla mano dell’uomo e all’incuria
di chi aveva tollerato che tali atti di vandalismo si compissero
impunemente. E concludeva “sarebbe ormai tempo di
por fine alla serie delle distruzioni, di far rispettare la legge
sulla tutela monumentale e di pensare alla conservazione
dei pochi ruderi che restano tuttora e specialmente della
torre che con lievissima spesa potrebbe essere restaurata”.
Il suo appello e il suo interessamento erano destinati a cadere
nel vuoto; a distanza di un secolo, aggirandosi tra le
rovine, si riporta la stessa impressione. Del complesso
fortificato di Pitino, tipica dimora del periodo feudale, restano
oggi la torre maestra, la porta di accesso e tratti della cinta
muraria che si estendeva per un perimetro di circa 400 metri.
Nel punto più alto del colle, in posizione eccentrica, quasi
addosso alle cortine del fronte settentrionale, si erge lo slanciato
mastio, ruotato leggermente verso est per meglio
controllare e proteggere il fronte più povero di difese naturali.
La torre, a pianta quadrata di m. 5,75 di lato, alta oggi
23 m., è priva della merlatura originaria che la rendeva
ancora più elevata. La sua altezza permetteva (ma non per
questo né dal Comune di Sanseverino era stata così
costruita ? l’osservazione è nostra) che i segnali fossero
visibili da tutti gli altri castelli di Sanseverino, fatta eccezione
per quello di Carpignano.
Costruita in blocchi di pietra siliceo-arenaria, come tutto il
mirabile complesso di fortificazioni che rendevano il castello
praticamente imprendibile, non ha nessuna porta. Vi si
accedeva da un camminamento sotterraneo che si diramava in
varie direzioni, con camminamenti all’interno e uscite
all’esterno delle mura, poi ostruiti o adibiti ad ossario.
Il restauro effettuato dalla Sovrintendenza nel 1958 non è
mai stato completato (forse perché, fin dall’inizio e come
ancora in parte si vede, malfatto - altra nostra osservazione) e
la torre percorsa da molte fenditure, rischia di staccarsi e
sfaldarsi, se non si corre tempestivamente ai ripari (cosa fatta
poi dall’amministrazione Sgarbi).
Le cortine del fronte settentrionale, con la continuità delle
muraglie a piombo, danno l’idea complessiva dell’impianto.
Alte più di 8 m. sono interrotte da torri rompi tratta, alte circa
12 m., poste a distanza di circa 40 m. l’una dall’altra e aperte
verso l’interno. - questo il lato meglio conservato del circuito
difensivo, completamente demolito nei lati ovest e sud.
Del tratto est e sud est della cinta muraria rimangono
isolati tronconi e la porta d’accesso; altre postierle dovevano
probabilmente essere dislocate lungo il circuito, ma non ne resta
traccia. All’interno rimangono alcuni edifici, fra i quali di
maggior interesse è la piccola chiesa di Sant’Antonio,
costruita alla fine del XV sec. in prossimità del mastio, utilizzando
e rimaneggiando gli ambienti a volta che costituivano
corpi di fabbrica del castello. All’interno si conservano resti
di affreschi cinquecenteschi, attribuiti alla scuola pittorica
settempedana. Di ben più ampie dimensioni è la chiesa ex
parrocchiale di Santa Maria della Pietà, sorta tra la fine del
'700 e i primi dell’'800 sulle rovine di un’altra più antica,
edificata nel 1292 e soggetta all’abazia di Sant’Eustachio in
Domora. Oggetto di restauro, costituisce con l’attigua casa
parrocchiale il nucleo principale all’interno del castello.
(Anna Maria Micozzi Ferri, L’Appennino camerte, n. 12
del 27 marzo 1993, n. 13 del 13 aprile 1993, n. 14 del 17
aprile 1993.
In sintesi: benché il Paciaroni e la Micozzi non lo
scrivano, l’evidenza e la storia dicono, e qui si documenta,
che il Comune settempedano ha non fondato, ma avversato
e distrutto Pitino e gli altri castelli del contado; e continua
per di più a far in modo che questo non sia detto né
conosciuto; e nemmeno pone un qualche rimedio all’ aggravarsi
della fatiscenza di quel poco che resta di essi.
Contro la definitiva scomparsa di Pitino, il rimedio più
probabile, se non l’unico, sarebbe che Sanseverino, per sua
incapacità a valorizzare il contado, arrivi ad essere quanto prima
quello che, sia pure contro l’auspicio di ognuno, sembra
destinata a diventare: il più grosso sobborgo di Treia oTolentino.
Va ricordato: Pitino, per sopravvivere, cercò già in passato
di allearsi e di far parte prima di uno poi dell’altro di questi
due Comuni. Furono, purtroppo, tentativi inutili. Ma quello
che non è successo, non è detto che non possa succedere.
Ad avvalorare, infine, quanto fin qui si è detto sta il fatto
che la foto di Pitino esposta in Cina (foto 147) come una
delle bellezze più nascoste dell’Italia, è stata scattata, con
gande sorpresa del Sindaco, da un super fotografo per hobby e
di Tolentino: l’avvocato Massimo Feliziani.
Menomale che, ad accorgersi e a farsi promotori di quel
poco ch’è rimasto delle “eccellenze” di Sanseverino, siano
quelli fuor di paese, e non già i settempedani, che hanno
ridotto quelle eccellenze a pochi e miserevoli ruderi. C’è
voluta un po’ di faccia tosta (ci si perdoni la franchezza verso
chi per altro si stima) a parlare del malridotto castello di
Pitino, solo così: di un’eccellenza che va riscoperta e vissuta,
e che (ad altri) piace!
***
Appendice letteraria
Appendice archivistica , a cura di Pacifico Fattobene
Archivio storico comunale di Treia:
– 1192, febr.: Donatio Castri Pitini facta a Gentile eiusque
filio et nepote. Perg. n. 4
– 1198, 4 maji: Foedus inter consules et monticulanos
contra septempedanos. Perg. n. 10
– 1203, junius: Remissio poenae facta communitati a
Gentile de Petino et Grimaldo eiusque filio pro adjuvamento
Petini. Perg. n. 1
– 1219, 14 apriliis: Concordia inter homines Monticuli et
Sanseverini super facta S. Laurenti. Perg. n. 8
– 1236, ?: Foedus inter comune Camerini et comune
Moniculi contra castrum S. Severini. Perg. n. 2 e 4
– 1237, 13 maji: Sindicus Monticuli assignat turrim,
gironem et castrum Petini Jacobo de Petino. Perg. s.n.
– 1244, 3 jun.: Concordia facta inter Monticulanos super
custodia castri Pitini. Perg. n. 80
– 1244,14 dec.: Petitio Monticulanorum, Camertium et
Tolentinatorum contra Jacobum de Petino. Perg. n. 80
– 1250, 15 dec.: Innocenzo IV concede ai Montecchiani la
terza parte del castello di Pitino.Bolla pont. n. 5.
In G. Colucci: “Treja antica città picena”. App. diplom., n.
XXVII, p. 74
– 1255, sett.: Il pubblico consiglio di Montecchio risolve di
fare certi cambi con quelli del castello di Pitino. Sedute
consiliari del 2 e 5 settembre. Perg. n. 204
Archivio storico del comune di Sanseverino Marche:
– 1205, 3 maggio : Lodo da Attone vescovo di Camerino
sulle vertenze fra Sanseverino e Tolentino per il possesso
del castello di Pitino. Documenti medioevali, busta I, fasc.
I, fol. 5–6
– 1296, ?: Processo sui confini di Cingoli con Motecchio.
Perg. reparto n. 1
– 1306, 29 marzo: Lodo di Duralte vescovo gabolitano e
Poliforte abate sulle discordie tra Camerino da una parte
e Sanseverino e Fabriano dall’altra. Doc. cartacei, cass. n. 1
– 1391, 1 jun.: Lettera dei capitani Azzo da castello e
Sindo da Montepoli a vari signori e comuni della Marca (fra
cui gli Smeducci) per aver libero transito. Cass. III, n. 38
– 1570, 25 apr.: Concordia e transazione tra i diversi
contadi di Sanseverino con il comune in relazione all’ imposizione
delle gabelle nel movimento delle merci. Docum.
cartacei, cass. n. 2
Archivio storico comunale di Tolentino:
– 1205, giugno: Stipulazione di un atto con il quale Gentile
e Grimaldo, signori di una parte di Pitino, sottoponevano
al comune di Tolentino un terzo del castello. Pergam.
Cass. Sanseverino, n. 1
– 1225, 27 maggio: Marcugualdo di Pitino rinnova il patto
stipulato da suo padre Gentile con Tolentino promettendo
di diventare cittadino e prendervi stabile dimora. Pergam.
Cass. Comunità diverse, n. 10
– 1225, 15 giugno: Giacomo, figlio di Matteo e nipote di
Gentile di Pitino, promette di mantenere i patti conclusi
dai suoi antenati con Tolentino e di prendervi la cittadinanza.
Cass. Miscellanee, n. 125
– 1244, 16 maggio: Matteo, notaio imperiale, comunica ai
Signori di Pitino di presentarsi a la “curia” imperiale.
Cass. Sanseverino, perg. n. 6
– 1244, 27 maggio: Giacomo di Morra, vicario generale,
ordina al comune di Sanseverino di lasciare il castello; e
ai comuni di Camerino, Tolentino e Treia ed a Giacomo
da Pitino di presentarsi il 30 magio 1244 davanti a lui per
esporgli le loro pretese su Pitino. Cass. Sanseverino, perg.
n. 7
– 1250, 3 giugno:Innocenzo IV sancisce la restituzione a
Tolentino del castello di Pitino. Miscellanee, n. 5
– 1258, 3 luglio: Il consiglio speciale di Tolentino si
pronuncia a favore di una definitiva soluzione amichevole con
Sanseverino sulla contesa su Pitino. Cass. Sanseverino,
perg. n. 14
– 1258, 5 luglio: Trattato di pace tra Tolentino e Sanseverino.
Cass. Sanseverino, perg. n. 15
Archivio storico di Camerino:
– 1240, 27 gennaio: Il cardinale Sinibaldo, rettore della
Marca, conferma con solenne privilegio i diritti di Camerino
su Pitino. Libro rosso, fol. 22–23 e fol. 31–31’
– 1258, 5 ottobre: Il rettore pontificio della Marca
d’Ancona, esprime la volontà di prendere il castello di Pitino
per conservarlo alla Chiesa Romana. Libro rosso, fol.
17–17’
Archivio storico di San Ginesio:
– 1248, 27 marzo: Trattato d’alleanza tra Camerino, Matelica,
San Ginesio, Tolentino, Pollenza, Treia e Cingoli
contro i seguaci dell’imperatore, tra cui espressamente
nominato Sanseverino e per la riconquista del castello di
Pitino da parte di Camerino, Tolentino e Tria. Fasc. IV,
perg. n. 19
Archivio di Stato di Firenze:
– 1246, 6 aprile: Lettera di Roberto da Castiglione, vicario
generale dell’Impero nella Marca d’Ancona, che promette
di decidere la controversia delle pretese di Camerino su
Pitino con un compromesso o una sentenza. Fondo Urbino
(copia in Archivio storico comunale di Camerino, Libro
rosso, fol. 16–17)
Dall’archivio di Stato di Norimberga:
Il fantasma di Pitino
N.B. Sul sito internet “Castello di Pitino” si legge: Castello di Pitino,
frazione di Sanseverino Marche, provincia di Macerata, Marche,
Italia. Secondo un’antica leggenda medioevale nelle notti senza luna il
fantasma di una dama si aggira tra queste mura: è quello di una bellissima
nobildonna che vi fu strangolata per gelosia da messer Sigismondo
da Montesanto (attualmente Potenza Picena) nel XIII secolo.
Il riferimento storico è stato suffragato da pergamene recentemente
rinvenute nell’Archivio di Stato di Norimberga.
L’autore di questo libro non ha potuto appurare né l’aggirarsi di questo
fantasma attorno le mura del castello di Pitino, dove anch’egli abitualmente
si aggira sia di giorno che di notte, né la presenza di quelle pergamene
nell’Archivio di Stato di Norimberga, dov’egli, però, non è mai
stato.
***
Detti dialettali giocosi
LA “BICOCCA” DI PITINO
Pitì bbruttu
se vede da per tuttu;
Pitì bbello
se vede da castello.
Di questo notissimo detto popolare, si cita di solito solo i primi due versi:
Pitì bruttu se vede da per tuttu. E si cita non già perché Pitino è, in
realtà, brutto, ma solo per ragioni di rima e brevità: di tutta la Marca
d’Ancona e del Piceno, nessun altro luogo ha, infatti, una bellezza, se non
altro, panoramica pari a quella di Pitino.
Da questa parziale citazione nasce che, soprattutto dalle parti della
marina, si usa dire, di un uomo brutto d’aspetto e malfatto, che è più bruttu
de la vicòcca de Pitì. Ma il termine “bicocca” qui è usato in modo
inappropriato. Perché chi dicesse che Pitino è o era a somiglianza d’una
bicocca come il palazzotto di don Rodrigo, sarebbe uno che ha letto il romanzo
del Manzoni, ma che non è mai stato a Pitino.
Tuttavia l’espressione: è più bruttu de la vicòcca de Piti, può far venire
in mente il poeta satirico Guadagnoli, che bollò con questi versi un uomo
davvero brutto:
È uno scherzo di natura,
un uom senz’architettura.
E qui l’architettura c’entra, perché – come tutti sanno – Pitino non è e non
è mai stato una “bicocca”, cioè una casupola o catapecchia, ma un
antichissimo castello con dentro le sue robuste mura tanto di borgo e insediato
in posizione isolata e inespugnabile su un colle alto 602 metri s.l.m., nel
comune di Sanseverino Marche, da cui dista una decina di chilometri.
Sulla sommità svetta una torrione rettangolare alto 23 metri, restato lì a
segnalare la completa rovina di quello che fu un complesso edilizio forte,
molto ammirato e conteso. Diroccato per l’azione deleteria del tempo e
prima per l’avversione e poi per l’incuria degli uomini, è ormai senza più
speranze di recupero. Ma i ruderi, per la loro posizione eminente e i
ricordi storici che suscitano, sono assai suggestivi; e il luogo attrae pur sempre
per il meraviglioso panorama circolare che da lassù si gode. Ma pure dal
basso e da lontano Pitino è visibile in amplissimo raggio, e di qui il detto:
Pitì bbruttu se vede da per tuttu. E in quanto agli edifici diroccati si dice
anche: Jì’ a ffinì come la vicòcca de Pitì: andare a finire come la bicocca
Lasciando ogni termine più o meno burlesco di paragone, in antico
Pitino andava famoso per la gagliardia della sua gente, per i funghi
(cardarélli) che vi proliferavano, per le lepri che vi si cacciavano, per i tori
massicci che vi si allevavano, per i pinoli che vi si raccoglievano, per
l’antichissimo vitigno candia (da cui un vino aromatico, paglierino,
amabile) e, infine, anche per i cesti e le scope che vi si confezionavano.
E proprio questa attività artigianale ed anche femminile diede la stura
nei tempi andati al seguente indovinello birbaccione, già raccolto e
pubblicato dal Ginobili:
Me ne jìo jo-ppé Pitì
’na vergara lì per lì
quìnnici sordi me chidì;
Io sùbboto j’ho risposto:
– Quìnnici sordi me pare troppo!
Se mme la voli dà’,
mènza lira e pòrtala qua.
Soluzione:
Giovinettacci, non pensate male:
adè la scopa pe’ scopà le scale!
NB: Rielaborazione di un testo di Pierluigi Ferramondo.
***
Bibliografia a cura di Pacifico Fattobene
1)Per la premessa:
– Decreto Ministeriale 2 ottobre 1974.
In Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana dell’8/1/’75,
n. 6, p.11
Articoli di giornali:
– S. Moscati, Un favoloso museo sotto il suolo Italiano, in
“Corriere della Sera” del 17/11/’81. Riscrivere la storia, in
“Corriere della Sera” del 97/6/’82. La civiltà picena
crogiuolo delle Marche, in “Corriere della Sera” dell’ 1/2/’84
– O. Marcaccini, Che cosa rimarrà di Pitino? In“L’Appennino
camerte”, del 6/11/1971
– A. Gubinelli, Il castello di Pitino: perché fu venduto? In
“L’Appennino camerte”, del 16/6/1979
– A. Gubinelli, Pitino, tesoro di memorie, In “L’Appennino
camerte”, “La voce settempedana”, del 19/10/1985
– G. Piangatelli, «Operazione Pitino». In “L’Appennino
camerte”, “La voce settempedana”, del 14/12/ 1985
– L. Cristini, Pitino, quale futuro. In “L’Appennino camerte”,
“La voce settempedana”, del 28/1/1988
– A. M. Micozzi – Ferri (?), L’Archeoclub si interroga: Quale
futuro per Pitino? In “L’Appennino camerte”, “La voce
settempedana”, del 6/2/1988
– A. Feliziani, Pitino dimenticata ma non dai vandali. In “Il
Resto del Carlino” (Macerata), del 14/6/1990
– A. M. Micozzi – Ferri (?), Pitino: un monumento da salvare.
In “L’Appennino camerte”, “La voce settempedana”, del
30/6/1990
2) Per Pitino come centro d’interesse archeologico:
– M. Moretti – G. Piangatelli, Archeologia settempedana
Sanseverino M., 1960
– G. Piangatelli, Preistoria e protostoria in provincia di
Macerata, in “Studi Maceratesi” – IV, pp. 5–50, Macerata, 1970
– M. Moretti, I Piceni a Pitino, in “Miscellanea settempedana”,
n. 1 , pp.81–91, Bellabarba, Sanseverino M., 1976
– D. Pascucci, L’età della pietra nelle Marche, in “Studi
Marchigiani” – Annate I e II , pp. 367–372, Unione Cattolica
Tipografica, Macerata, 1907
– A. M. Sgubini Moretti, Pitino. Necropoli di monte Penna:
tomba 31. In “La civiltà picena nelle Marche: Studi in onore
di G. Annibaldi”. Ancona 10–13 luglio, 1988, pp.178–203
– G. Annibaldi, La necropoli picena di Pitino, in “Studi
Maceratesi”, Macerata, 1968, IV, pp. 236–246
– R. Vighi, Nuove scoperte di antichità picene, Sanseverino
M., 1972
– V. Cianfrani, Antiche civiltà d’Abruzzo, p. 27, 66 e ss.,
Roma, 1969 – G. Colonna, Dischi, corazze centro–italici, in
“Atti VIII Congresso di St. Etruschi ed Italici”, p. 196, n. 11,
Orvieto, 1972 . Scavi e scoperte, in “St. Etr.”
– M. Landolfi, Abitato piceno di colle di Pitino, in “Museo
civico archeologico di Sanseverino Marche”, Tipoluce, Osimo,
2003
– XLI, pp. 515–517. Località monte Penna di Pitino, S.E. XLI,
1963, pp. 515–517 – Autori vari, Marche – Archeologia, p.
108, Electa, Milano, 1965
3) Per Pitino come centro d’interesse storico in generale:
– Plinio il Vecchio, Historia naturalis, Lib. III, cap. 13
– C. Tolomeo, Geographia, Lib. III, cap. 1
– P. Clüver,Italia antiqua, Lib. II, cap. 5 e 6
– F. Ribezzo, Unità della toponomastica mediterranea, in
“Rivista I. G. I.” – Anno IV, 1920
– G. Colucci, Dell’antica città di Pitino Mergente, in “Delle
Antichità Picene” – Tomo VIII, pp. 1–29, Fermo, 1970
– G. Colucci, Treja antica città picena oggi Montecchio, in
“Antichità picene” – Tomo II, pp. 69–71, Macerata, 1988.
Con appendice diplomatica: pp. 58–61, 65, 68, 70–72, 74,
79–81
– C. Santini, Saggio di memorie della città di Tolentino. Ed.
Cortesi – Capitini, Macerata, 1789; ristampa Forni Edit.,
Bologna, 1967, pp. 102–103. Con appendice diplomatica: pp.
273–274 nn. 11,12,13; 275–276 n. 14; 276–278 n. 15
– B. Gentili, Memorie storiche di Sanseverino Marche.
Autografo. Ms. inedito, sec. XVIII, p. 374 e ss. Raccolta privata
di Marco Sabbatini
– V. E. Aleandri, Il castello di Pitino e i suoi dinasti, in
“Giornale Araldico”, n. 20, Bari, 1893
– V. E. Aleandri, Nuova guida storica ed artistica di Sanseverino
Marche, p. 200 sgg. 22 sgg. 25, 44 sgg. Tip: Taddei,
Sanseverino M., 1898
– W. Hagemann, Tolentino nel periodo svevo (1). Estr. dal vol.
XXXV di “Studia Picena”, pp. 18–21, 24–25, 40–44, 46–48,
Tip, Sonciniana, Fano, 1967
– W. Hagemann, Tolentino nel periodo svevo (2). Estr. dal vol.
XLII di “Studia Picena”, pp. 3, 4–7, 38–40 59–60, Tip.
Sonciniana, Fano, 1975
– F. Tenckhoff, Der Kampf der Hohenstaufen um die Mark
Ancona und das Herzogtum Spoleto, pp. 30–31, Paderborn, 1893
– M. Santoni, Il libro rosso del Comune di Camerino (1207–
1336. pp. 41–42 n. 6; 42–43 n. 10. In “Archivio storico per le
Marche e l’Umbria” II, 1885
– M. Santoni, Il diploma del cardinale Sinibaldo Fieschi legato
della Marca per le franchigie dei Camerinesi. Camerino, 1894
– J. Ficker, Urkunden zur Reichs – und Rechtsgeschichte Italiens =
Forschungen zur Reichs – und Rechtsgeschichte Italiens, IV
– C. Lilli, Dell’historia di Camerino, I. Pp. 240–242.
Macerata, 1652
– O. Turchi, Camerinum sacrum. Romae, 1762. App. Doc. pp.
LXXIII – LXXXIV
– A. M. Micozzi Ferri, Castello di Pitino. In “L’Appennino
camerte” n. 12, del 27/3/‘93, n.13, del 3/4/‘93, n. 14, del 10/4/‘93
– M. Mauro, Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle
Marche. Istituto Italiano dei Castelli, 1992, vol. I, pp. 207–210
– R. Paciaroni, Pitino nella poesia popolare . In “L’Appennino
camerte” n. 20 del 29/5/'71. Pitino nella storia. In
“L’Appennino camerte”, n. 51 del 28/12/‘85. Un sigillo dei signori
di Pitino. “Circolo filatelico numismatico”, Sanseverino
Marche, 2006
– A. Gubinelli, San Severino Marche. Guida storico artistica.
EDC Edizioni, pp. 9–10, Macerata, 1975
– A. Meriggi, Storia di Treja dalle origini al 1900. Tip. A. Pezzotti,
pp. 18-19, 68, 72, 74-75, 80, 97, Tolentino, 1983 (nota 7)
***
Note:
7) Per unastoria di Pitino e, in particolare, del suo castello, ci è sembrato
doveroso e pertinente riportare il pensiero di Raoul Paciaroni (l’unico che
potrebbe e saprebbe farne subito una con tutti i crismi, se non ritenesse che
si fa storia solo scegliendo e trascrivendo in nota documenti d’archivio):
«Per la storia del castello di Pitino esistono numerosi documenti sia
nell’Archivio Storico Comunale di Sanseverino, che in quelli dei Comuni
che furono interessati al suo possesso quali Camerino, Tolentino e Treia,
ma anche altrove come a Matelica, Cingoli, Fabriano, San Ginesio, ecc.
Molte notizie sono poi contenute nelle storie locali di questi stessi Comuni.
Manca tuttavia una storia del castello soprattutto per il periodo medioevale
(…). Sarebbe perciò molto opportuno (…), e dalla bibliografia storica
regionale e dalla ricca documentazione archivistica, redigere un lavoro
scientifico che illustri il ruolo non secondario avuto da (…) questo castello nelle
vicende storiche di Sanseverino e delle Marche».
L’autore di questo volume aggiunge di suo questa riflessione:
«Considerando il rilievo nazionale avuto da Pitino in epoca picena, e vista, se non
la contrarietà, l’indifferenza del Comune di Sanseverino per le sorti di un
patrimonio così importante, non sarebbe utile per tutti e dignitoso per i
dirigenti della Regione Marche far sopravvivere di Pitino almeno quel poco
che rimane e che si può, con fedeltà, ripristinare del suo castello?».
Si ringrazia per l’autorizzazione a riprodurre foto:
– Boncagni Michele nn. 95, 96, 117-119, 126, 127, 175-177
– Bonifazi Costantino n. 172
– Caciorgnia Fernando n. 194
– Caciorgnia Malio e Monia nn. 83, 131, 132, 139, 157, 159
– Cameli Tiziana n. 245
– Del Savio Gabriele n. 2
– Eugeni Marco n. 94
– Fattobene Nunzio nn. 66, 69-72, 81, 82, 110, 129, 130, 140, 142
– Cav. Florio Giovanni n. 243
– Gallo Carla n. 248
– Gardi Guido n. 200
– Germani Sauro nn. 121 -125
– Giachè Guido nn. 179-181, 182
– Lucarini Nazzareno nn. 115, 128, 188
– Marasca Giancarlo nn. 44, 73-75, 98, 99, 102, 104, 105,
– Martinelli Paolo n. 183
– Massei Carlo nn. 160, 161, 174
– Mercuri Irma n. 240
– Mizioli Marco nn. 190-192
– Palmieri Fiorina n. 195
– Piangatelli Giuliano nn. 43, 84-86, 90-21, 105, 111, 116
– Piantoni Silvana e Adria n. 246
– Pizzi Giampaolo nn. 163, 168
– Ranaldi Luigi nn. 45-50, 52-55, 58-63, 67, 68, 93, 137
– Rocci Marisa n. 247
– Sabbatini Marco n. 142
– Scarponi Claudio nn. 87, 89, 106
– Scattolini Utilia e Caciorgnia Guido n. 178
– Senzanonna Giampaolo n. 114
– Simonetti Massimo n. 112
– Tomassini Vincenzo nn. 239, 242
– Travaglini Remo nn. 143, 149-156, 165, 185187, 189, 193
NB: Si chiede scusa per eventuali errate attribuzioni.
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